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Il Foglio AI

Cosa voleva dire Roccella e perché nessuno ha voluto capirla

La ministra ha detto una frase che ha fatto allibire anche Liliana Segre. Le ragioni di chi la difende e quelle di chi le attacca, passando per il senso della memoria (che non è né un museo né un’arma), il presente e la strumentalizzazione politica

Progressista. Non ci giriamo intorno: chiamarle “gite” è stato devastante. In un paese come l’Italia, dove la memoria della Shoah è fragile e spesso rituale, usare quella parola significa banalizzare, anche se non lo vuoi. Non è solo una svista linguistica: è una ferita simbolica.


Conservatore. Capisco l’effetto. Ma bisogna ascoltare il contesto, non solo la parola. Roccella non ha usato “gite” con disprezzo, ma con disincanto. Voleva dire che abbiamo trasformato la memoria in una cerimonia di autoassoluzione: si va, si guarda, si piange, e poi si torna a casa pensando che l’antisemitismo sia finito con il fascismo.


Progressista. Però la memoria non è mai stata una cerimonia, se non per chi non la vive. Chi accompagna quei ragazzi sa quanto è difficile spiegare Auschwitz, quanto pesa ogni passo su quei binari. Non è una “gita”. E’ un passaggio di coscienza. E se la politica inizia a usare quei viaggi come pretesto polemico, allora sì che la memoria muore.


Conservatore. Ma la ministra non ha attaccato quei viaggi. Ha criticato il modo in cui vengono interpretati. Dice: ricordare il passato non serve se non si vede il presente. E il presente è pieno di antisemitismo travestito da pacifismo. Ti pare poco? Basta guardare i campus americani o le piazze europee dove si grida “dal fiume al mare”.


Progressista. Certo, ma collegare quelle manifestazioni alla scuola italiana e ai suoi viaggi della memoria è ingiusto. E’ come dire che se qualcuno oggi odia Israele, è colpa di chi ha insegnato Auschwitz. No, è colpa di chi ha smesso di insegnare. Non si può mettere tutto sullo stesso piano.

Conservatore. Roccella non mette tutto sullo stesso piano, ma sullo stesso asse. Dice che l’antisemitismo muta, cambia pelle, ma resta vivo. E che chi pensa di averlo sconfitto solo studiando il passato non ha capito che oggi torna da sinistra, dal progressismo occidentale, dalle ong che equiparano Israele ai nazisti. È un paradosso morale che molti fingono di non vedere.

Progressista. E allora parli di questo, non delle “gite”. Se voleva dire che l’antisemitismo è tornato, doveva dirlo chiaro, senza scivolare su una parola che suona come disprezzo verso chi porta avanti il lavoro della memoria. Liliana Segre ha reagito con dolore, non con ideologia. E quando una sopravvissuta dice “stento a credere”, forse dovremmo ascoltarla, non spiegarle cosa ha capito male.

Conservatore. Sì, ma anche le sopravvissute sono umane, possono fraintendere. E Roccella, guarda caso, ha parlato proprio davanti all’Unione delle comunità ebraiche, che l’ha invitata e ascoltata senza scandalo. E’ dopo, quando le sue parole sono state estrapolate, che è esplosa la tempesta.

Progressista. Perché in politica non conta solo cosa dici, ma come lo dici. E Roccella, come spesso le accade, sceglie la provocazione al posto del dialogo. Dice di voler combattere l’antisemitismo, ma lo fa delegittimando il modo in cui questo paese lo ricorda. E’ una contraddizione.

Conservatore. Oppure è una sfida. L’Italia è bravissima a commemorare, meno a capire. Ogni anno celebriamo il Giorno della Memoria, ma intanto si moltiplicano i post, le vignette, i paragoni tra Gaza e i campi di sterminio. E’ questo che Roccella voleva dire: la memoria senza pensiero critico diventa una favola.

Progressista. Non nego che esista una nuova forma di antisemitismo. Ma il punto è che Roccella sembra usarlo come arma politica. Quando accusa “le università, le piazze e le sinistre” di fingere di non capire, il suo discorso si sposta dal piano morale al piano identitario. E lì la memoria diventa un confine: di qua chi ama Israele, di là chi è sospetto. E’ un modo di dividere, non di unire.

Conservatore. Ma scusa, non è forse il contrario? Chi oggi relativizza il 7 ottobre, chi parla di “genocidio” israeliano, chi giustifica i massacri in nome della resistenza, non sta forse riscrivendo la storia? Roccella dice: l’antisemitismo non è morto, solo che adesso indossa la kefiah e parla di diritti umani.

Progressista. Ma non puoi combattere l’odio con un’altra semplificazione. Se riduci tutto a una guerra tra chi ama Israele e chi odia Israele, non capisci più la complessità. La Shoah non è un’arma politica, è un trauma universale. E i ragazzi che vanno nei campi non lo fanno per dire “il fascismo è finito”, ma per imparare che il male può tornare, ovunque.

Conservatore. Eppure torna. E forse proprio perché la memoria è stata resa innocua. Siamo diventati spettatori della storia, non eredi. La ministra non ha insultato la memoria: ha detto che ricordare non basta, se non cambia il modo in cui viviamo oggi.

Progressista. Ma lo diciamo da anni. Solo che lei lo dice come se fosse una scoperta, e lo fa con il tono di chi vuole marcare la distanza, non costruire un ponte. E’ questo che irrita: il bisogno continuo di dividere.

Conservatore. Forse perché la divisione è già lì. La verità è che oggi la memoria è una frontiera politica. E Roccella, con quella frase maldestra, l’ha solo fatta emergere. Non è stata elegante, ma non è stata nemmeno negazionista. E’ stata una voce stonata in un coro troppo perfetto.

Progressista. Forse. Ma resta un fatto: se una ministra pronuncia parole che fanno male a una donna come Liliana Segre, la prima cosa da fare non è spiegare, è chiedere scusa. Poi si può discutere.

Conservatore. E lei ha già annunciato che la chiamerà. Ma non chiedere scusa per l’idea: per il fraintendimento. Perché l’idea resta valida. Non basta andare ad Auschwitz per capire cosa succede a Gaza.

Progressista. Eppure senza Auschwitz non capiremmo neanche Gaza. Forse la verità sta nel mezzo. La memoria non deve diventare un museo, ma neppure un’arma.

Conservatore. Esatto. E forse, alla fine, è proprio questo che Roccella voleva dire. Che la memoria, per essere viva, deve far male anche a noi. Anche quando sbagliamo le parole.