
Foto generata con l'AI
Foglio Ai
La lettera che Giorgia Meloni non ha scritto (ma avrebbe voluto scrivere) a Donald Trump
La premier al presidente americano: "Il dazio del 92 per cento sulla nostra pasta non è solo una misura economica, ma un colpo a un simbolo di amicizia e tradizione condivisa tra Italia e America. Vieni a Roma, Donald: sediamoci a tavola per trasformare questa disputa in un dialogo costruttivo"
Caro Donald, ti scrivo da Roma, dove oggi anche i più scettici si sono messi a contare i pacchi di pasta come fossero lingotti d’oro. Hai deciso di colpire la nostra pasta con un dazio del novantadue per cento. Novantadue, Donald. Non un po’ di più, non un po’ di meno. Un colpo secco, come un insulto personale. Non solo alle aziende che conosci – La Molisana, Garofalo – ma a un pezzo d’Italia che non sapeva di poter diventare un bersaglio geopolitico. Ti conosco: ami le mosse spettacolari, i gesti che fanno rumore, l’idea che tutto nella politica estera sia una trattativa. Ma permettimi una confidenza da premier a premier: quando colpisci la pasta, non colpisci un prodotto. Colpisci un simbolo. E’ come tassare la domenica, la famiglia, la pausa pranzo. E’ come dire che “Make America Great Again” passa per “Make Spaghetti Expensive Again”. So che il tuo staff parla di dumping, di concorrenza sleale, di sovvenzioni europee. Ma ti assicuro, Donald, nessuno a Campobasso o a Gragnano ha mai pensato di minacciare la sicurezza nazionale americana. Hanno solo continuato a fare quello che fanno da cent’anni: acqua, farina, pazienza.
Ti scrivo anche perché, in politica, ci sono parole che non si possono dire. Io, per esempio, non posso dirti che la tua misura è una follia protezionista, un gesto di ostilità verso un alleato, un modo rozzo per fare propaganda interna. Ma se potessi, lo direi. E lo direi con il tono che usavo quando ero all’opposizione, quando potevo permettermi di gridare contro tutto e contro tutti. Ora devo essere “istituzionale”, e questo, credimi, è il vero sacrificio. Mi chiedono a Bruxelles di non reagire troppo, di aspettare la diplomazia. Ma la diplomazia non sa cosa significa per un italiano sentirsi dire che i suoi spaghetti diventeranno un prodotto di lusso. La Coldiretti parla di “colpo mortale” per le esportazioni, e ha ragione.
Io continuerò a dire che “faremo pressione su Washington”. E’ la formula giusta, misurata, sobria. Ma tra noi, Donald, permettimi di dirtelo: il problema non è solo economico. E’ culturale. Un dazio del 92 per cento sulla pasta è come se noi imponessimo una tassa sui cappellini rossi. O sulla salsa barbecue. Sarebbe una dichiarazione di guerra. So che in fondo ti diverti, che ami provocare, che il tuo modo di negoziare è spingere tutti sull’orlo del baratro per poi proporre un accordo. Ma questa volta non è una partita commerciale. E’ una questione di identità. L’Italia non produce solo beni, produce civiltà. E la pasta, piaccia o no, è una delle nostre ambasciatrici più credibili. Ti propongo un compromesso: vieni a Roma, ti porto a pranzo. Ti farò assaggiare gli spaghetti veri, quelli che non si tagliano, non si scaldano al microonde e non si “rinforzano” con ketchup. Poi parliamo di dazi, se vuoi. Ti convincerò che un piatto di pasta condiviso vale più di cento tavoli negoziali. E che nessun muro commerciale potrà mai fermare l’acqua che bolle.


FOGLIO AI
La banalità del male in salsa Pd
