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Il Foglio AI

Il 7 ottobre spiegato a chi non lo capisce

Il punto non è Israele, è l’umanità. Dire che il 7 ottobre “non è stato così grave” o che “è stato una risposta” significa accettare la logica del terrore come strumento politico. E’ un precedente che dovrebbe inquietare tutti, anche chi sogna uno stato palestinese libero

Intellettuale 1: Non capisco perché insistiate tanto sul 7 ottobre. Non era la solita escalation? Israele e Gaza litigano da anni.

Intellettuale 2: No, non era la solita escalation. E non è un dettaglio da archiviare. Il 7 ottobre 2023 è stata la più grande strage di civili ebrei dalla Shoah. E’ stato un pogrom. E’  stato un massacro pianificato, con 1.200 morti, tra cui bambini, famiglie intere, persone bruciate vive, stupri usati come arma di guerra. Non un incidente collaterale, ma lo scopo stesso dell’operazione. E non lo dicono solo i giornali israeliani: lo hanno documentato organizzazioni internazionali, giornalisti occidentali, persino alcuni rapporti Onu.

Intellettuale 1: Ma Hamas non rappresenta, almeno in parte, la rabbia di un popolo oppresso?

Intellettuale 2: Non confondere. Rabbia, oppressione, rivendicazioni legittime di uno stato palestinese sono una cosa. L’uso sistematico della violenza terroristica, la glorificazione della morte e la cancellazione dell’altro sono un’altra. Il 7 ottobre non è stato un atto politico. E’ stato un atto genocidario, compiuto in nome dell’idea che Israele non deve esistere e che gli ebrei possono essere sterminati. Il professor Yehuda Bauer, uno dei massimi storici della Shoah, lo ha detto chiaramente: quello era un pogrom, non un’azione militare.

Intellettuale 1: Ma anche Israele uccide civili, con i bombardamenti. Non è la stessa cosa?

Intellettuale 2: Attento. Nessuno nega il dolore dei palestinesi. Nessuno dovrebbe negare le responsabilità e le sproporzioni nelle risposte israeliane. Ma dire “è la stessa cosa” significa non capire la differenza tra chi usa la propria popolazione come scudo umano e chi, pur in una guerra sporca e feroce, dichiara di voler eliminare un gruppo terroristico. Nel diritto internazionale, le intenzioni contano. E il 7 ottobre l’intenzione era una sola: uccidere e terrorizzare i civili, colpire gli inermi perché ebrei, non perché soldati.

Intellettuale 1: Ma non si può leggere tutto solo dal punto di vista di Israele.

Intellettuale 2: Infatti. Il punto non è Israele, è l’umanità. Dire che il 7 ottobre “non è stato così grave” o che “è stato una risposta” significa accettare la logica del terrore come strumento politico. E’ un precedente che dovrebbe inquietare tutti, anche chi sogna uno stato palestinese libero. Perché nessuna causa sopravvive se è fondata sul culto del massacro. Chi minimizza oggi, domani non potrà stupirsi se la stessa logica del massacro verrà usata contro altri.

Intellettuale 1: Però tanti nei cortei in Europa parlano di resistenza. Gridano “From the river to the sea”.

Intellettuale 2: Ecco il problema. La parola resistenza non può essere usata per coprire uno sterminio. “From the river to the sea” non è uno slogan di libertà: è un progetto di cancellazione. Significa: niente Israele, niente ebrei in quella terra. E’ un linguaggio di pulizia etnica. Chi oggi lo ripete, magari senza rendersene conto, normalizza la violenza del 7 ottobre. Hannah Arendt, che certo non era sospettabile di simpatie per la destra israeliana, lo avrebbe definito banalizzazione del male: parole apparentemente nobili usate per giustificare atrocità.

Intellettuale 1: Ma i palestinesi non hanno alternative.

Intellettuale 2: Certo che hanno alternative: negoziare, costruire istituzioni credibili, isolare i fanatici. Lo hanno fatto in parte negli anni Novanta, quando l’Autorità palestinese era ancora un soggetto politico in grado di dialogare. Poi Hamas ha preso il potere con le armi e ha deciso che l’unica alternativa è il martirio. Il 7 ottobre è stato un suicidio strategico: ha rafforzato Israele, ha spaccato il fronte arabo, ha reso più lontano lo stato palestinese. Ti sembra una strada che porta da qualche parte?

Intellettuale 1: Quindi il 7 ottobre è solo colpa di Hamas?

Intellettuale 2: E’ colpa di Hamas, sì. Ma è colpa anche di chi, fuori, ha minimizzato, relativizzato, messo sullo stesso piano un pogrom e una guerra. E’  colpa di chi, in occidente, ha trovato scuse intellettuali per il massacro: colonialismo, apartheid, decolonizzazione. E’ colpa di università e partiti che hanno scambiato il terrorismo per radical chic. Quando un consigliere comunale in Italia si permette di inneggiare alla “cancellazione di Israele”, il problema non è Israele: il problema è la nostra cultura politica, incapace di chiamare le cose con il loro nome.

Intellettuale 1: Ma allora non c’è speranza?

Intellettuale 2: C’è speranza se chi crede davvero alla pace ha il coraggio di dire le cose come stanno: il 7 ottobre è il punto zero. Da lì bisogna partire per ricostruire un discorso onesto. E c’è speranza se anche il campo progressista occidentale trova il coraggio di separarsi dalle derive estremiste. Perché non c’è nulla di progressista nello stare con chi violenta donne, uccide bambini, massacra famiglie. Non c’è nulla di rivoluzionario nello inneggiare a chi vuole cancellare un popolo.

Intellettuale 1: Quindi, in fondo, cosa resta?

Intellettuale 2: Resta un fatto semplice. Se vuoi davvero la pace, devi cominciare col dire che il 7 ottobre è stato un crimine. E che ogni progetto politico che si regge su quella data è destinato al fallimento. Senza questa consapevolezza, ogni discorso sulla pace sarà solo retorica vuota.

Intellettuale 1: Allora, in una frase, come lo spiegheresti?

Intellettuale 2: Così: il 7 ottobre non è stata resistenza, è stato un pogrom. E se non capisci questo, tutto il resto che dirai sulla pace non avrà mai senso.