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Elogio del crampo: cosa ci insegna il corpo di Jannik Sinner, dietro la smorfia
Il crampo, simbolo della fragilità umana nello sport, colpisce tutti e rappresenta il limite fisico che nessuna forza mentale può superare. L’episodio di Jannik Sinner diventa così una lezione universale: anche i campioni devono ascoltare il corpo e accettare la resa come parte del gioco
Il crampo è la forma più democratica del dolore sportivo: colpisce il campione come l’amatore, il maratoneta come il ballerino di salsa. E’ un gesto involontario del corpo, un piccolo golpe fisiologico che scatta quando il muscolo, stremato, decide di non rispondere più agli ordini del cervello. Ed è ciò che è successo a Jannik Sinner, il ragazzo che ha trasformato la disciplina in un’arte nordica, piegato per qualche minuto da un gesto che sembrava minore e invece racconta tutto dello sport moderno.
Tecnicamente, il crampo è una contrazione improvvisa, violenta, e soprattutto persistente di un gruppo muscolare. Non è una ferita, non è una lacerazione: è un corto circuito. Dentro il muscolo, i nervi motori inviano impulsi elettrici alle fibre per farle contrarre e rilassare. Quando il bilancio tra sodio, potassio, calcio e magnesio – gli elettroliti che regolano la comunicazione tra cervello e muscolo – si altera, il sistema impazzisce: le fibre restano contratte, come una corda che non si allenta più.
E’ un errore di comunicazione, un messaggio che non arriva a destinazione. Il cervello ordina: “rilassati”. Il muscolo risponde: “non posso”. Ed è lì che nasce il dolore, quella tensione che sembra non finire mai. Nello sport succede quando la fatica prosciuga le riserve di zuccheri e sali minerali, quando la sudorazione eccessiva altera l’equilibrio chimico del corpo o quando il sistema nervoso, iperstimolato, manda troppi segnali di contrazione. Nel tennis, i crampi sono quasi un linguaggio universale. Non sono un segno di debolezza, ma di eccesso: arrivano quando la volontà supera la fisiologia, quando il giocatore ha spremuto ogni molecola di energia e il corpo, come un computer surriscaldato, si spegne per autodifesa. Lì dove il calcio ha la fatica collettiva e il ciclismo ha la fame chimica, il tennis ha il crampo. E’ il punto esatto in cui la potenza mentale non basta più.
Ma c’è di più. Il crampo non è solo un fenomeno biologico: è anche culturale. Nella sua brutalità c’è un messaggio moderno, quasi filosofico. Viviamo in un’epoca che chiede ai corpi di essere efficienti come macchine, di eliminare il limite. Il crampo è la smentita incarnata di quell’illusione: è il corpo che ricorda al cervello che non esiste software senza hardware, che la volontà non basta, che l’energia non è infinita. Quando Bertolucci dice che “il tennis è brutale e i giocatori sono ingordi”, tocca un punto vero. L’ingordigia atletica è la tentazione di chi ha conosciuto la vittoria e vuole domare anche il tempo e la biologia. Ma il corpo non dimentica: accumula stress, calorie bruciate, segnali nervosi, fino a dire basta. E quel “basta” non è un fallimento, è un avvertimento.
Da un punto di vista culturale, il crampo è una forma di memento mori contemporaneo. Ricorda che la prestazione perfetta non può essere infinita, che il corpo resta un terreno fragile. Per questo la smorfia di Sinner, chinato, con il fisioterapista che gli massaggia le gambe come a rimettere in moto un motore bloccato, è una scena di umanità rara in uno sport che vive di controllo e compostezza. E’ l’irruzione dell’imprevisto, il ritorno del biologico nell’èra dei sensori e dei dati biometrici. Eppure, proprio da quei crampi nascono spesso i momenti più forti della narrativa sportiva. Perché il crampo non si cura con la forza, ma con la pazienza. Si distende, si allunga, si reidrata, si aspetta. E’ un atto di resa temporanea che diventa, a suo modo, una strategia. Un corpo che si blocca insegna a fermarsi, e in questo senso il crampo è anche una lezione di civiltà: ci ricorda che la stanchezza non è un bug, è una funzione.
Sinner tornerà, certo, e lo farà più lucido, perché conosce la grammatica del dolore fisico e sa che ogni tanto bisogna lasciare che la macchina si fermi per non rompersi. Ma a chi guarda da fuori, quella scena dice qualcosa di più grande: che anche nella competizione più perfetta, la fragilità è parte del gioco. E che il corpo, per quanto addestrato, resta la più bella imperfezione che abbiamo.


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La banalità del male in salsa Pd
