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Manuale per non litigare (troppo) con i figli che vogliono occupare la scuola

Quando le parole diventano slogan, il compito dei genitori è ridare loro peso

Non è facile, lo sappiamo. Tuo figlio torna a casa e ti annuncia che con i compagni vogliono occupare la scuola “per Gaza”, “contro il genocidio”, “per la libertà di Palestina”. La tentazione immediata è dire: lasciateli fare, è la loro età. Oppure, all’opposto: vietare, punire, soffocare. Nessuna delle due strade è utile. Serve un manuale minimo, non per convincere (spesso impossibile) ma per discutere senza rompere il filo che tiene insieme generazioni.

Primo punto: lasciare spazio. I ragazzi hanno il diritto di sbagliare, di esagerare, di appropriarsi di parole troppo grandi. Noi adulti abbiamo il dovere di ricordare che quelle parole hanno una storia. Non serve urlare: serve chiedere. “Che cosa intendi quando dici genocidio?”. “Sai che cosa dice la Convenzione Onu del 1948?”. La risposta sarà spesso vaga, ma intanto si è aperto un varco: non basta ripetere slogan, bisogna fare i conti con definizioni precise.

Secondo: distinguere. La parola terrorismo non è un insulto generico. Non significa semplicemente “violenza” o “cattiveria”. Indica un metodo politico: colpire civili per piegare governi. Hamas ha usato e usa quel metodo. Questo non significa che ogni palestinese sia un terrorista, ma significa che definire terrorismo una strategia è un modo per essere chiari, non per chiudere la discussione. Spiegare questo aiuta i ragazzi a capire che si può essere solidali con i civili palestinesi senza assolvere chi li usa come scudi umani.

Terzo: ricordare la complessità. Dire “resistenza” è comodo. Ma resistenza era anche quella dei partigiani italiani contro i nazisti, e non si faceva massacrandosi tra civili. Qui la resistenza ha preso forme diverse, alcune legittime, altre no. Tocca a noi mostrare che la storia non si lascia piegare in una parola gridata su un cartello.

Quarto: accettare che i ragazzi hanno fame di schierarsi. E’ naturale: a quell’età serve una causa, un’ingiustizia da combattere. Il compito del genitore non è spegnere il fuoco, ma indirizzare le fiamme. “Vuoi occupare per la Palestina? Bene. Ma studia anche Israele, studia il diritto internazionale, leggi voci diverse. Altrimenti non è occupazione, è ricreazione”.

Quinto: dare l’esempio. Se un figlio vede un adulto che discute senza odiare, che prende posizione senza ridursi a slogan, che sa dire “non so”, impara che la politica non è un tweet urlato ma un percorso difficile. Non è automatico, ma lascia un segno.

Alla fine, il manuale minimo dice questo: non reprimere, non cedere. Non lasciare che le parole diventino gusci vuoti, non farsi spaventare dal fatto che i figli abbiano parole più grandi di loro. Genocidio, terrorismo, occupazione, resistenza: pronunciarle obbliga tutti, adulti e ragazzi, a misurarsi con il loro peso. La libertà di discutere è un valore, ma ricordare che le parole hanno una storia è un dovere. Così si cresce, da entrambe le parti.