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Il Foglio AI
Europa verde, Europa grigia: dialogo sull'industria che verrà
Un conservatore e un progressista discutono di ecologismo e difesa della politica industriale verde. Uno dice che il Green Deal è stato un’utopia costosa, l’altro che senza di esso l’Europa sarebbe solo un museo di rovine industriali
Conservatore: Ti dico subito come la penso: il Green Deal è stato il più grande esperimento di ingegneria morale della storia europea. Peccato che la morale non produca acciaio, non abbassi le bollette, non tenga aperte le fabbriche. E’ bastato guardare i numeri: tra il 2020 e il 2024 la produzione industriale europea è scesa di circa il 7 per cento, mentre gli Stati Uniti crescevano e la Cina, con i suoi sussidi monstre, allagava il mercato di auto elettriche a basso costo.
Progressista: E’ vero, ma senza Green Deal avremmo perso anche la direzione. Pensa all’auto elettrica: certo, la Cina corre, ma senza i target europei oggi avremmo ancora le case automobilistiche inchiodate alla nostalgia del diesel. La verità è che la transizione fa male all’inizio, come tutte le rivoluzioni industriali. Anche quando si passò dal carbone al petrolio ci furono proteste, disoccupazione, persino nostalgici dei treni a vapore.
Conservatore: Non puoi paragonare il vapore al litio. Allora c’era abbondanza di energia a basso costo, oggi invece abbiamo deciso di renderci più poveri da soli. Ricordi la bolletta del gas nel 2022? Triplicata. Ricordi i costi dell’acciaio? In molti casi raddoppiati. E mentre noi ci flagellavamo, gli americani lanciavano l’Inflation Reduction Act: 370 miliardi di dollari di sussidi per attrarre imprese. Risultato: fabbriche europee in fuga verso l’Ohio e il Texas.
Progressista: Quello è stato l’errore: pensare che bastassero le regole senza mettere sul tavolo soldi veri. L’Europa ha fatto la maestra severa, non la madre generosa. Abbiamo imposto standard durissimi, ma non abbiamo dato alle aziende gli strumenti per rispettarli. E’ stato come chiedere a uno studente di passare l’esame senza dargli i libri.
Conservatore: Ammetti allora che il Green Deal è stato più green che deal. Bello nei discorsi, vuoto nella sostanza. E intanto l’Europa perde terreno. Nel fotovoltaico, il 75 per cento dei pannelli è made in China. Nelle batterie, Pechino controlla l’80 per cento della catena del valore. E noi? Facciamo piani, conferenze stampa e task force.
Progressista: E’ vero, siamo lenti. Ma guarda che la forza dell’Europa è proprio la capacità di fissare standard che poi diventano globali.
Conservatore: Abbiamo creduto che bastasse dire “zero emissioni” per diventare leader mondiali. Invece ci siamo ritrovati con industrie strozzate e cittadini arrabbiati.
Progressista: Però guarda anche l’altra faccia. Senza la spinta del Green Deal, saremmo ancora a dipendere al 50 per cento dal gas russo. L’invasione dell’Ucraina ci ha costretti ad accelerare: più rinnovabili, più rigassificatori, più diversificazione. A volte l’utopia è utile per costringerti a cambiare rotta.
Conservatore: D’accordo, ma non puoi vivere di utopia. Devi pagare gli stipendi, tenere le fabbriche aperte, competere sul mercato globale. Io dico: basta obiettivi irrealistici, servono incentivi pragmatici. Se vuoi davvero attrarre investimenti, devi abbassare il costo dell’energia, ridurre la burocrazia e difendere le imprese dalla concorrenza sleale.
Progressista: E io aggiungo: serve un bilancio europeo all’altezza, non una collezione di fondi nazionali. Serve una politica industriale continentale, come fu il piano Airbus o come è oggi il progetto sui microchip. Altrimenti, ogni paese andrà per conto suo, e saremo deboli di fronte a giganti come Stati Uniti, Cina e India.
Conservatore: L’esempio di Airbus è calzante. Negli anni ’70 ci volle un patto tra governi, un’unione di capitali e di ingegneri che trasformò l’Europa in leader dell’aviazione civile. Oggi ci servirebbe lo stesso coraggio per l’energia e l’automotive. Invece passiamo il tempo a litigare su etichette e certificazioni.
Progressista: Ma attenzione: Airbus funzionò anche perché l’Europa seppe credere in una sfida che sembrava impossibile. Gli americani ridevano, dicevano che non avremmo mai avuto aerei competitivi. Oggi Airbus compete con Boeing alla pari. Perché non potremmo replicare la storia con le batterie o con l’idrogeno?
Conservatore: Perché stavolta non basta la volontà. Allora c’era un mercato unico da conquistare e un competitor solo. Oggi ci sono almeno tre giganti, più agili e più spregiudicati. Per vincere, dobbiamo smettere di pensare come filosofi e cominciare a pensare come imprenditori.
Progressista: E se la filosofia fosse proprio ciò che distingue l’Europa? Il Green Deal, pur con i suoi difetti, ci ha dato un brand, un’identità. Quando si parla di transizione verde, il mondo guarda a Bruxelles. Se riusciamo a trasformare questa reputazione in produzione reale, allora sì che avremo un vantaggio competitivo.
Conservatore: Sempre che non ci trasformiamo in un museo a cielo aperto. Sai come ci vedono molti imprenditori asiatici? Come un continente che ama discutere di futuro mentre vive di passato. Musei bellissimi, città d’arte invidiabili, ma fabbriche che chiudono. E questo, mi spiace, non lo risolvi con un regolamento.
Progressista: Forse è qui che ci incontriamo. Il Green Deal così com’è è stato un errore di ingegneria politica. Ma può diventare una base per ripartire, se smettiamo di trattarlo come una religione e lo trasformiamo in un piano industriale concreto. Non più un decalogo morale, ma un manuale d’officina.
Conservatore: Finalmente parli come uno di destra.
Progressista: E tu, per una volta, come uno che non vuole buttare via tutto. Forse il futuro dell’industria europea nascerà proprio da questa strana alleanza: la tua insofferenza e la mia speranza.
Conservatore: Purché, stavolta, la bolletta non la paghino solo gli operai e i cittadini.
Progressista: Su questo, non posso che darti ragione.