
Il foglio Ai
Schlein non sfonda. Il conto amaro delle regionali
Anche le Marche vanno al centrodestra. Dalla Sardegna all'Umbria, tre sole vittorie a fronte di sette sconfitte. La fragilità del campo largo
Il tempo delle giustificazioni si è esaurito con la sconfitta nelle Marche. Elly Schlein, insediata alla segreteria del Partito democratico nel marzo del 2023, ha affrontato in meno di tre anni dieci tornate regionali. E se è vero che ogni regione ha una storia a sé, che i candidati contano più delle sigle e che il radicamento territoriale del centrodestra è frutto di un lavoro ventennale, i numeri non lasciano scampo: tre vittorie, sette sconfitte. La serie è cominciata male e non si è più raddrizzata. Nell'aprile del 2023 il Friuli-Venezia Giulia ha confermato Massimiliano Fedriga con percentuali bulgare. Due mesi dopo, in Molise, il centrodestra ha vinto senza fatica, nonostante l'alleanza tra Pd e Cinque stelle. Nel marzo del 2024, in Abruzzo, Marco Marsilio ha allargato il margine rispetto a cinque anni prima. Ad aprile, in Basilicata, Vito Bardi ha incassato la riconferma con dieci punti di distacco. A giugno, in Piemonte, Alberto Cirio ha vinto senza storia, e lo stesso copione si è ripetuto in autunno in Liguria. Sei sconfitte su sei, in un arco di dodici mesi, senza neanche l'attenuante di un equilibrio sul filo dei voti. Le uniche eccezioni che hanno interrotto la striscia nera sono arrivate grazie a due fattori esterni più che al traino del Nazareno. In Sardegna, a febbraio 2024, la vittoria di Alessandra Todde è stata decisa da un'incollatura di tremila voti e ha avuto più il sapore di un successo personale della candidata pentastellata che non di una svolta targata Pd. In Emilia-Romagna e in Umbria, nel novembre dello stesso anno, il centrosinistra ha retto grazie a candidati forti e ben radicati: Michele De Pascale a Bologna e Stefania Proietti a Perugia. In entrambi i casi, il merito è stato della capacità dei territori di organizzarsi, più che dell'impulso romano.
Arriviamo così a oggi, con la settima sconfitta: le Marche consegnate al centrodestra. Una regione simbolica, perché nel 2015 era stata la prima roccaforte “rossa” a cedere alla destra meloniana. Schlein aveva puntato a farne il terreno della riscossa, a dimostrare che il campo largo poteva riconquistare un pezzo d'Italia. Non è andata così: la coalizione progressista non si è sfondata e il risultato ha confermato il trend nazionale.
Il paradosso è che il Pd di Schlein, nei sondaggi nazionali, non è mai stato debole: anzi, si è attestato su cifre solide, spesso in crescita. Ma la traduzione territoriale di quel consenso non arriva. Le ragioni sono molte: una selezione dei candidati spesso litigiosa, la difficoltà di tenere insieme Cinque Stelle e riformisti, il peso di amministrazioni uscenti poco amate, e soprattutto l'incapacità di costruire un racconto unitario che vada oltre la retorica del “campo largo”.
Così, mentre Giorgia Meloni rafforza la sua mappa di potere locale e il centrodestra consolida un dominio che dura da anni, il centrosinistra guidato da Schlein non riesce a fondare neanche dove ci sarebbe spazio. Il messaggio che esce dalle urne è semplice e severo: la leadership della segretaria non basta, da sola, a cambiare i rapporti di forza. Le regioni lo hanno detto chiaramente, una volta di più. E ora, con sette sconfitte sul groppone, la domanda che attraversa il Pd non è più se Schlein riuscirà a invertire la rotta, ma se ci sarà il tempo politico per provarci.