
IL FOGLIO AI
Perché Leone XIV fa bene a non usare la parola “genocidio” su Gaza
Il Papa sceglie il silenzio della prudenza di fronte alla tragedia di Gaza: non per negare il dolore, ma per non chiudere i ponti del dialogo. Evitare la parola “genocidio” non è un atto di debolezza, ma la condizione per restare voce credibile di pace, capace di parlare a tutti, anche a chi oggi combatte
Quando Leone XIV sceglie di non pronunciare la parola “genocidio” a proposito della tragedia di Gaza, non compie un atto di debolezza, ma di responsabilità. E’ facile per la politica, e ancora più per l’opinione pubblica, cedere alla tentazione delle parole definitive: chiamare genocidio ciò che accade in medio oriente significa evocare l’Olocausto, i processi di Norimberga, la cancellazione dell’altro come progetto politico. Significa trasformare un conflitto sanguinoso e doloroso in un’iperbole morale senza ritorno. Leone XIV, invece, sa che le parole non sono slogan, ma pietre: e quando le lanci nel dibattito globale, non puoi più ritirarle. Il nuovo Pontefice si muove in un terreno minato: deve tenere insieme i cristiani di Terra Santa, i rapporti con Israele, il dialogo con i musulmani, la credibilità internazionale della Santa Sede come voce della pace. Dire “genocidio” sarebbe come schierarsi con un fronte politico contro l’altro. Non dirlo, invece, gli permette di restare al centro: di denunciare le sofferenze dei civili palestinesi senza negare il diritto di Israele a difendersi; di piangere i bambini sotto le macerie senza dimenticare gli ostaggi israeliani ancora prigionieri; di chiedere tregua e negoziato senza trasformarsi in megafono di una propaganda.
La Chiesa conosce il valore della prudenza. E’ la stessa logica con cui Giovanni Paolo II evitò di usare parole definitive durante la guerra in Iraq, o con cui Pio XII – con tutti i limiti e le controversie – scelse il silenzio prudente di fronte ai crimini nazisti per non mettere a rischio le comunità cattoliche sotto occupazione. Non è questione di relativismo, ma di diplomazia spirituale: Leone XIV non è un attivista, è un pontefice. E un ponte, per reggere, deve sopportare il peso delle passioni immediate senza crollare.
Certo, qualcuno dirà: ma se il Papa non chiama le cose col loro nome, a cosa serve? Eppure, proprio il rifiuto di usare categorie definitive permette a Leone XIV di restare ascoltato anche da chi non condivide le sue posizioni. Nel linguaggio internazionale, “genocidio” non è una parola qualsiasi: è una categoria giuridica che presuppone intenzionalità, progetto di annientamento, responsabilità penali precise. Dirlo oggi su Gaza significherebbe anticipare un giudizio che neppure i tribunali internazionali hanno formulato, e chiudere ogni spiraglio di dialogo politico.
Il Papa non è un giudice, non è un pubblico ministero, non è un leader di parte. E’ un’autorità morale che deve tenere aperta una via d’uscita. Se condanna in termini assoluti, riduce la sua funzione a quella di un commentatore indignato. Se mantiene le parole su un registro diverso – pietà, dolore, denuncia, richiesta di pace – può continuare a parlare con tutti. Anche con chi ha le mani sporche di sangue.
La tragedia di Gaza non ha bisogno di un lessico di guerra, ma di un linguaggio che non bruci i ponti. Ecco perché Leone XIV fa bene a non usare la parola genocidio: non per minimizzare, ma per massimizzare le possibilità di pace. A volte, la forza non sta nel dire l’ultima parola, ma nel trattenersi per lasciarne ancora qualcuna da pronunciare.