(immagine realizzata con ChatGpt)

Il Foglio AI

Il doppiopesismo del Fatto Quotidiano

Con la mafia lo stato deve combattere fino all’ultimo sangue. Con Putin, meglio non provocare

Il bello di Marco Travaglio è che non delude mai: puoi aprire il Fatto quotidiano e sapere già che troverai un editoriale indignato, scritto come se fosse inciso sul marmo, contro la stupidità dei governanti, contro la pochezza dei politici, contro la vigliaccheria di chi non ha il coraggio di affrontare i cattivi. Basta pensare a trent’anni di polemiche contro i governi “morbidi” con la mafia: con i boss, ripeteva Travaglio, non si tratta, non si media, non si contratta. Si combatte. Lo stato è forte quando non arretra, quando non si piega, quando non si arrende.

Poi arriva la Russia di Putin e all’improvviso lo spartito cambia. “Con la Russia non si vince, meglio non suicidarsi, meglio un accordo”. Curiosa metamorfosi: da Catone il Censore a Gorbaciov in un colpo solo. La mafia, diceva Travaglio, la si sconfigge senza compromessi. La Russia, invece, sarebbe troppo potente per essere affrontata. Strano, perché se c’è una differenza evidente fra Cosa nostra e Mosca è che i mafiosi non avevano armi nucleari e non minacciavano l’Europa intera. Ma nel mondo travagliesco il paradosso è la regola: con i cattivi interni pugno di ferro, con i cattivi esterni mano tesa. Questa torsione logica non è un dettaglio: racconta una filosofia politica fatta di bersagli mobili, in cui la coerenza è meno importante della polemica quotidiana. Travaglio non scrive per costruire una visione del mondo, scrive per demolire quella esistente. E in questo esercizio sistematico di demolizione, ogni avversario diventa utile purché incrini la narrazione “ufficiale”. E’ un metodo che premia nell’immediato, perché offre al lettore il brivido dell’eterodossia, ma lascia un deserto strategico: nessuna proposta, solo macerie. Alla lunga, però, il rischio è che a forza di attaccare i palazzi, ci si ritrovi a spalancare le porte alle caserme degli autocrati.

E qui si intravede l’essenza del Fatto quotidiano: trovare una propria identità politica solo quando si tratta di sostenere chi mina gli architravi delle nostre democrazie. Putin, da un lato, giustificato e normalizzato come il “male inevitabile” con cui bisogna convivere. Dall’altro, la magistratura militante, sostenuta senza fiato anche quando invade territori che la Costituzione non le assegna. Due facce della stessa medaglia: appoggiare sempre chi può mettere in crisi gli equilibri delle istituzioni liberali.

Con Putin, l’argomento è: non possiamo vincere, dunque non combattiamo. Con la mafia era: possiamo perdere, ma dobbiamo combattere. Con i magistrati era: la politica è troppo debole, dunque viva i pm che si sostituiscono al Parlamento. Il filo rosso è chiaro: lo stato democratico è sempre l’impostore da smascherare, mai il baluardo da difendere.

Travaglio non ama gli architravi della democrazia, ama i terremoti che li scuotono. Per questo con Putin non è mai veramente in disaccordo: non perché lo stimi, ma perché il solo fatto di minacciare l’ordine liberale lo rende, per riflesso, un alleato narrativo. E’ la geopolitica del doppiopesismo: con i cattivi italiani serve la guerra totale, con i cattivi globali meglio una tregua accomodante.

La coerenza? Un optional. Ma l’ironia della storia è che, se avessimo seguito la logica di Travaglio sulla mafia, oggi Riina avrebbe un seggio al Senato. E se seguiamo la logica di Travaglio su Putin, domani potrebbe avere un seggio a Bruxelles.