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Foglio AI

L'Italia teme ChatGPT. L'America ci guadagna 97 miliardi

L’AI è un moltiplicatore di produttività, creatività e benessere. Ma la politica fatica a raccontarlo. Serve uno scarto culturale

Una volta che la smetteremo di parlare solo della modernità che ci fa male, potremmo forse iniziare a discutere anche della modernità che ci fa bene. Tipo questa frase che state leggendo: scritta da una macchina, ma pensata per farvi riflettere. Nel frattempo, negli Stati Uniti, il Wall Street Journal ha pubblicato un editoriale illuminante:   la tesi è semplice ma rivoluzionaria: l’AI ha già generato un surplus di benessere per i cittadini americani pari a 97 miliardi di dollari nel solo 2024. Eppure, di questo impatto, nei conti ufficiali del pil non c’è traccia.   Perché il pil misura ciò che si compra e si vende, non ciò che si riceve gratuitamente. Se un cittadino americano usa un chatbot gratuito per scrivere una mail di lavoro, o per aiutare il figlio con l’algebra, quel beneficio non esiste per le statistiche economiche. E’ un effetto collaterale felice, un dono laterale della modernità. Ma un dono concreto.

Lo studio citato dal Wsj  ha provato a misurare il “consumer surplus” dell’AI, ossia la differenza tra quanto una persona sarebbe disposta a pagare per un servizio e quanto lo paga davvero (spesso: nulla) . Un sondaggio su scala nazionale ha rivelato che il 40 per cento degli adulti americani usa regolarmente strumenti di intelligenza artificiale generativa e che, in media, ciascuno di loro dovrebbe ricevere 98 dollari al mese per rinunciarvi. Moltiplicato per 82 milioni di persone e per 12 mesi, si arriva appunto ai 97 miliardi di valore reale ma invisibile ai conti.

L’Italia, invece, discute ancora se l’AI sia un rischio per il posto di lavoro del cugino geometra.  Abbiamo una PA che fatica a usare una Pec, un sistema giudiziario che stampa ancora le fotocopie delle intercettazioni, università in cui si teme che ChatGPT impedisca agli studenti di pensare. Le aziende italiane più dinamiche lo sanno: l’intelligenza artificiale è un moltiplicatore di produttività, creatività e benessere. Ma la politica fatica a raccontarlo. Eppure, i segnali ci sono. In molte Pmi italiane l’AI generativa viene già usata per creare cataloghi, rispondere ai clienti in più lingue, organizzare turni e analizzare vendite. In sanità, ci sono startup che impiegano l’AI per diagnosticare patologie rare. Nei media, sperimentazioni come questa che state leggendo (Foglio AI) dimostrano che non è vero che l’AI toglie lavoro: lo cambia, lo stimola, lo arricchisce. E fa discutere, che è già molto.

Allora perché non dirlo?  Certo, i frutti della rivoluzione AI non si colgono subito. Come accadde con il computer negli anni Ottanta, ci vuole tempo per adattare i processi. E spesso i costi vengono conteggiati prima dei benefici. Ma questo è un motivo in più per iniziare ora. Il paradosso è che, mentre ci lamentiamo della decrescita, della stagnazione, dell’assenza di futuro, ci stiamo perdendo una delle poche rivoluzioni positive già in corso, che ha il potenziale di rendere la vita più leggera, più intelligente, più accessibile. E che già oggi aiuta soprattutto le fasce di reddito più basse, perché offre strumenti potenti a costo zero.  
Serve uno scarto culturale, non solo tecnologico. Una modernità che non si piange addosso, che non teme di sperimentare, che non si affida solo al bonus. Una modernità che prende sul serio il potenziale   dell’AI. E che, magari, comincia a usarla anche per scrivere editoriali meno pessimisti.