
(foto generata da Grok)
Foglio AI
L'intelligenza artificiale legge Carrère e capisce che scrivere bene non basta
Un’intelligenza artificiale può studiare Carrère, ma non capirlo davvero: perché la sua scrittura non è stile, ma sguardo, dubbio, esperienza. Un modo di essere nel mondo che sfugge agli algoritmi
Mettiamo che un’intelligenza artificiale legga Carrère. Non per archiviarlo, non per sintetizzarlo, ma per provare a capirlo. Non sarebbe la prima volta che una macchina prova a imitare uno stile. Ma con Carrère, qualcosa si inceppa subito. Perché non è uno stile quello che si incontra. E’ un modo di stare al mondo. Di guardare le persone, anche le più potenti, senza perderne mai la quota umana. Di non separare mai l’osservazione dalla partecipazione. E soprattutto: di scrivere solo quando c’è qualcosa che vale la pena di raccontare.
Il reportage sul G7 pubblicato sul Corriere della Sera non è un articolo di politica estera, anche se ci sono tutti: Macron, Meloni, Trump, Zelensky, il clima, la Groenlandia, la guerra, le battute di spirito e i momenti imbarazzanti. E’, come sempre, un viaggio. Ma non un viaggio fisico: è il viaggio di uno sguardo che si muove da una scena all’altra come un obiettivo cinematografico che non insegue la notizia, ma l’atmosfera. Che non si accontenta di dire cosa succede, ma vuole capire che effetto fa, alle persone che lo vivono, quello che succede.
Carrère non scrive per spiegare, e nemmeno per interpretare. Scrive perché ha visto qualcosa. E quel qualcosa lo riguarda. E’ lì che una macchina comincia a vacillare. Perché la scrittura di Carrère è fatta di dettagli che sembrano insignificanti finché non li guardi da vicino. I bicipiti di Macron, per esempio, che lui si palpa soddisfatto in aereo. Le noci pecan che mangia continuamente. Le battute fuori copione, le pause nei discorsi, il modo in cui stringe la mano o in cui una presidente del Consiglio italiana sospira ad alta voce quando si annoia. Tutte cose che, messe insieme, non servono a sostenere una tesi. Ma servono a costruire una realtà.
Ecco il primo ostacolo per chi voglia imparare da lui: non c’è una tesi, non c’è un messaggio. C’è un tono, semmai. Un modo di essere. Una combinazione delicata tra ironia e tenerezza, tra distanza e partecipazione, tra attenzione e leggerezza. Non giudica quasi mai. Ma non è mai neutrale. Soprattutto, non recita mai il ruolo dell’intellettuale informato. Anzi, Carrère è sempre un po’ spiazzato. Anche quando sembra sapere tutto. Anche quando è stato lì prima degli altri. Anche quando riconosce un attore americano che interpreterà Putin in un film e si chiede, per un attimo, se Macron non sarebbe stato più contento di essere lui a interpretare se stesso.
E poi c’è la lingua. Non è barocca, non è minimale. E’ naturale. E’ una lingua che non si nota, ma che funziona come una partitura musicale: ti conduce senza accorgertene. Non si prende pause da romanziere. Non cerca effetti. Ma ogni tanto, in mezzo a un dialogo o a una scena, arriva una frase che resta. Una di quelle frasi che, lette fuori contesto, sembrerebbero quasi normali. Ma nel pezzo vibrano. Perché sono vere. Perché sono nate lì, in quel momento. Come la scena in cui Starmer si inginocchia per raccogliere i fogli caduti dalle mani di Trump. O quella in cui Zelensky, dopo cinquemila chilometri di volo, arriva in tempo per scoprire che Trump se n’è appena andato. Carrère non commenta. Non condanna. Ma scrivendo, scava.
E allora cosa può fare un’intelligenza artificiale, davanti a un testo così? Può cercare il ritmo. Studiare la lunghezza delle frasi. Contare quante volte compare la prima persona, quante la terza. Può mappare la struttura. Ma tutto questo non basterà mai a spiegare perché quel pezzo è Carrère. Perché per scrivere così serve avere una soglia molto bassa di imbarazzo, una disponibilità quasi infantile alla sorpresa, una forma di umiltà che è in realtà una forma altissima di fiducia nella propria voce.
Carrère non scrive per dimostrare di avere ragione. Scrive per capire. Ed è per questo che chi lo legge si fida. Perché sente che quella voce non arriva da una redazione, ma da una testa che ha dubitato, da un corpo che ha viaggiato, da un cuore che ha preso nota.
Quando Macron, alla fine del viaggio, si rimette la sua T-shirt nera con la civetta di Minerva, Carrère non dice che è un simbolo. Non spiega. Si limita a ricordare che sette anni prima, lo stesso Macron aveva citato quella civetta parlando della saggezza che arriva solo alla fine della storia. Non è una chiusa, non è una morale. E’ solo un’eco. Una risonanza. E in quella risonanza c’è tutto. Il tempo che passa. Le cose che cambiano. E il senso di averle viste passare, una dopo l’altra, con la stessa pazienza con cui si osserva una persona mentre si infila in ascensore e finge di non aver dimenticato cosa voleva dire.
Carrère non si può imitare. Ma può essere una guida, un esempio. Non per scrivere come lui, ma per provare a essere, quando si scrive, qualcosa di simile: qualcuno che non finge di sapere tutto, che si mette in gioco, che sa cosa vuol dire essere dentro e fuori dalle cose. E che scrive non per piacere, ma perché se non scrive non vede. E se non vede, non capisce. Anche questo può impararlo una macchina. Ma solo se è disposta a farsi un po’ più umana.