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Il Foglio AI
Dottor Salvini, il problema delle strade italiane non sono gli autovelox: è la velocità, la cultura del sorpasso e l'illusione dell'impunità
Il dibattito sulla sicurezza stradale in Italia è pieno di ipocrisie: il problema sono la tolleranza verso la velocità e la cultura dell’impunità. Il ministro dei Trasporti affronti il problema con coraggio politico, rigore normativo e un vero cambiamento culturale
Ogni volta che si torna a parlare di sicurezza stradale in Italia, lo si fa con la stessa liturgia: le multe ingiuste, gli autovelox trappola, i limiti assurdi, la sfortuna, l’errore umano e – naturalmente – l’inciviltà dei ciclisti. Ma c’è un dato che, a dispetto della retorica, si ostina a restare immobile nella statistica e nei necrologi: la velocità uccide. E nessuno – nemmeno il suo ministero, dottor Salvini – sembra volerlo dire ad alta voce. Nel 2024, secondo l’Istat, ci sono stati 3.030 morti sulle strade italiane. Circa otto al giorno. Nello stesso periodo sono rimaste ferite 233.853 persone. Il costo sociale stimato è di 22,6 miliardi di euro.
Dottor Salvini, sa qual è la prima causa di incidente mortale, dopo la distrazione? La velocità. Troppo elevata, troppo fuori controllo, troppo sottovalutata. Eppure, nella narrazione pubblica, è quasi un vanto: “Corro, ma guido bene”, “ho il piede pesante, ma sono prudente”. Intanto, solo nel 2024, ben 19.497 incidenti sono stati causati da velocità eccessiva. E ben il 34 per cento delle sanzioni comminate dalle forze dell’ordine riguarda proprio la violazione dei limiti. Questa non è una crociata moralista. E’ un richiamo al realismo. In Francia, Germania e Spagna, negli ultimi cinque anni, il calo della mortalità è stato netto: -20, -10, -30 per cento. In Italia? -4,5 per cento. Più che un progresso, un inciampo. Il nostro paese resta infatti fanalino di coda nella corsa verso l’obiettivo europeo: dimezzare i morti entro il 2030. Per riuscirci, dovremmo ridurre del 27 per cento in cinque anni. Siamo fermi, letteralmente. La verità è che abbiamo paura della parola “limite”. Come se rispettare un limite – di velocità, di prudenza, di decenza – fosse un atto da deboli. Abbiamo un parco auto tra i più vecchi d’Europa (13 anni di media, 24 per cento ancora con classificazione Euro 0-3), un tasso di motorizzazione da record (700 auto ogni 1.000 abitanti), e un culto per il mezzo privato che non conosce crisi.
Caro ministro, nel suo ruolo ha spesso indicato gli autovelox come un sopruso. Eppure, sono uno dei pochi strumenti che riducono la velocità in modo sistematico. Non sono perfetti. Alcuni sono installati male, mal segnalati, messi per far cassa. Ma il punto non è l’autovelox. E’ che senza deterrenza, l’uomo accelera. Sempre. Anche dove non dovrebbe. Anche dove muore un ragazzo di 20 anni – la fascia con più vittime, assieme agli over 70 – e si pensa sia solo destino. E poi ci sono le vittime invisibili: motociclisti (830 morti nel 2024, +13,1 per cento), bambini (29 vittime tra 0 e 14 anni), anziani (212 morti tra gli over 85). Tutti schiacciati da una cultura dell’automobilismo che si dice “civile” ma accetta implicitamente che la strada sia un campo di battaglia. Il fatto che la maggior parte degli incidenti avvenga su rettilinei o in città non è un mistero. E’ che si corre dove si può. Non dove si deve. Oggi la velocità media in autostrada è più alta di dieci anni fa. I veicoli sono più potenti, più pesanti, più rapidi. I tempi di reazione restano uguali. E il corpo umano, alla fine, ha ancora la stessa resistenza di sempre. Sotto i 30 all’ora, un investimento pedonale è raramente mortale. Sopra i 50, è quasi sempre letale. Ma quanti centri urbani rispettano questi parametri? Quanti politici hanno il coraggio di imporlo? Salvini, se davvero vuole rendere le strade più sicure, cominci da qui. Servono limiti più rigidi, strade meglio progettate, controlli reali, multe certe. Ma soprattutto serve un cambiamento culturale. Perché se non si accetta che rallentare salva vite, allora il morto in più non sarà mai colpa di nessuno. E la prossima statistica, come sempre, passerà inosservata.