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Il Foglio AI
Scuole di giornalismo nell'èra AI: meno dizione, più cervello
Con l’AI che impara a condurre tg e leggere testi, le scuole di giornalismo ripensano la formazione: non più solo tecniche e regole, ma strumenti per costruire idee, visione, cultura e saper stare in scena con autenticità. Il caso cinese
La scena si ripete ogni giorno, in decine di studi e università del mondo. Ragazze e ragazzi davanti a una telecamera, su sfondo neutro, con un copione tra le mani o davanti a un gobbo. Voci perfette, gesti calibrati. Tutto sembra pronto per la diretta. Ma in un angolo della sala c’è uno spettro che fino a pochi anni fa non esisteva: l’intelligenza artificiale. E’ successo in Cina, ma riguarda tutti: sei avatar generati da AI hanno condotto l’intero palinsesto di punta della Hangzhou Culture Radio Television Group durante il capodanno cinese. Nessuna gaffe, nessun turno saltato. Un lavoro impeccabile, disumano. Come ha detto Han Rubing, giovane conduttrice: “così realistici che non si capiva più se fossimo noi o loro”. Non era mai successo: l’intero primetime lasciato a conduttori artificiali. Nessun errore, nessuna fatica. Nessun umano. Pochi giorni dopo, anche nella sua emittente si parlava già di sostituire il conduttore con un modello AI. Il caso era diventato regola.
Ma se l’AI può leggere perfettamente un testo, perché formare ancora conduttori? Se può reggere una diretta, perché insegnare dizione, ritmo, respiro? E’ la domanda che attraversa oggi le scuole di giornalismo. In Cina – come racconta una recente inchiesta di Sixth Tone – stanno già dando risposte concrete. E riguardano anche noi. Per decenni, in particolare in Asia, l’accesso alle reti televisive era subordinato alla perfezione espressiva: dizione cristallina, volto controllato, emozione trattenuta. Le università per “broadcasting” erano scuole d’eccellenza tecnica. Ma oggi quegli stessi istituti devono misurarsi con avatar che non sbagliano un accento, non si distraggono, non sudano. La Communication University of China ha cambiato pelle: si insegnano format, talk show, improvvisazione, letteratura, perfino informatica. Non basta più leggere bene una notizia. Bisogna interpretarla, incarnarla. Non basta essere corretti. Bisogna essere vivi. Han Rubing, che lavora in diretta su programmi streaming, lo ha capito: “Non posso essere solo una lettrice. Devo portare qualcosa che l’AI non ha. Devo essere più flessibile, più viva, più capace di sorprendere”.
“L’AI è una macchina che legge bene. Ma non sa cosa conta davvero”, dice il professor Li Hongyan, docente a Pechino. Il punto non è la capacità espressiva, ma la selezione e la gerarchia dell’informazione. In aula si insegna ai ragazzi a leggere con intenzione, a capire il pubblico. E’ lì che l’umano si distingue. Il vantaggio dell’AI è chiaro: costi bassissimi, prestazioni perfette, disponibilità 24/7. Ma anche rigidità, mancanza di calore. Un’AI può imitare il ritmo, ma non la sfumatura. Può pronunciare correttamente, ma non dare senso a ciò che dice. Per questo gli studenti migliori non puntano solo a un posto in tv: studiano linguistica, teatro, neuroscienze, storytelling. E ora anche IA generativa, linguaggi LLM, interfacce conversazionali. Non per programmare. Per capire i propri concorrenti. Le scuole di giornalismo sono chiamate a una metamorfosi. Devono diventare laboratori di personalità. Non più centri di addestramento tecnico, ma luoghi dove si coltivano idee, voci, visioni. Dove si insegna a raccontare il mondo, non solo a descriverlo.
Come spiega Li, non basta sapere parlare bene. Bisogna dominare più linguaggi, capire i nuovi formati – dai podcast ai reel – e soprattutto sapere cosa dire. Un avatar può simulare un conduttore, ma non il coraggio di un’opinione, l’ironia di un’osservazione. In Cina – e presto anche altrove – chi vuole emergere nel mondo dell’informazione non studia solo giornalismo: studia letteratura, cinema, politica, filosofia, programmazione, semiotica, economia comportamentale. L’unico modo per non essere sostituibili è diventare più complessi della macchina.
In Italia, però, questo dibattito non è ancora cominciato. Troppo spesso le scuole insegnano ancora come “scrivere una notizia”, non come “essere un giornalista nel 2025”. Si confonde il giornalismo con la correttezza, la neutralità, la precisione formale. Ma se vuole sopravvivere all’AI, deve riscoprire la sua forza espressiva, emotiva, soggettiva.
Il rischio, come ha detto Gao Guiwu della Renmin University, non è che l’AI diventi umana. È che noi diventiamo più piatti, più standardizzati. Che perdiamo ciò che ci rende davvero utili: la capacità di emozionare, coinvolgere, far pensare. Non dobbiamo temere le macchine. Dobbiamo temere di non saper fare meglio di loro. Di non sapere più improvvisare, sorprendere, persuadere. Di non avere nulla da dire che non possa dire un algoritmo. Le scuole di giornalismo devono diventare scuole di artisti del linguaggio. Non basta insegnare l’etica. Bisogna insegnare la voce, l’impronta, il senso. E soprattutto: la presenza.
Come ha detto una studentessa cinese: “il pubblico non si affeziona a un volto. Si affeziona a un’idea, a un tono, a un valore”. E’ questo che l’intelligenza artificiale ancora non sa imitare. E se le scuole sapranno formare chi quella differenza la incarna, avranno ancora molto da dire.