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Il Foglio AI
Rispondere a Trump: serve il bastone o il cervello?
L’Europa discute su come rispondere ai nuovi dazi americani: chi spinge per misure immediate e chi chiede di usare la leva del negoziato. In gioco non c’è solo l’economia, ma il futuro delle relazioni tra Washington e Bruxelles
“Duri da subito. E’ l’unico linguaggio che Trump capisce” Trump ha dichiarato guerra economica all’Europa. E’ inutile girarci intorno: i dazi del 30 per cento annunciati su tutte le esportazioni europee sono un atto ostile. Siamo suoi alleati, non suoi nemici. Ma lui ci tratta come un problema, non come una risorsa. Se l’Europa non reagisce ora con durezza, quando dovrebbe farlo?
“Sì, è una provocazione. Ma la forza non è reagire: è scegliere quando”
E se fosse solo un bluff? Trump è un maestro del negoziato aggressivo. Usa la minaccia come leva per ottenere concessioni. Non cadiamo nella trappola di rispondergli con lo stesso linguaggio. L’Europa è forte quando è fredda. Von der Leyen ha fatto bene a sospendere le ritorsioni: ci sono due settimane per trattare. Usarle è intelligenza, non debolezza.
Il duro: Ma chi lo dice che è un bluff? Trump ha già imposto dazi su 380 miliardi di beni europei. Con lui alla Casa Bianca, non si tratta: si resiste. Lo ha capito Macron, lo ha capito anche Scholz. Perché l’Italia dovrebbe aspettare l’ennesima “soluzione ragionevole” mentre Coldiretti parla già di 2,3 miliardi di perdite sull’agroalimentare?
Lo stratega: Perché la diplomazia funziona solo se è credibile. E oggi l’Europa è credibile se dimostra di non essere isterica. Le contromisure da 21 miliardi sono pronte. Quelle da 72 miliardi pure. Se scatteranno, saranno devastanti per entrambe le economie. Ma a quel punto avremo almeno tentato il compromesso. Altrimenti diventiamo come lui: prevedibili, impulsivi, inefficaci.
Il duro: Non diventiamo come lui: diventiamo seri. Il rispetto internazionale non lo si ottiene a colpi di hashtag, ma dimostrando che sappiamo difenderci. L’America non è più quella di Roosevelt o di Obama. E’ un partner instabile, volubile, egocentrico. Pensare di gestirlo con i fiori è un’illusione.
Lo stratega: Nessuno propone fiori. Si propone lucidità. Giorgia Meloni l’ha detto: “Una guerra commerciale dentro l’Occidente ci indebolisce”. E ha ragione. Cosa ne sarà del sostegno all’Ucraina, della cooperazione sulla difesa, se l’Europa e l’America cominciano a trattarsi come due potenze rivali? La posta in gioco è più alta del prosciutto di Parma.
Il duro: Ma anche il prosciutto di Parma conta, perché è economia reale. Conta per migliaia di imprese italiane, francesi, spagnole, tedesche. Trump colpisce il cuore delle esportazioni europee: cibo, moda, meccanica. Non possiamo aspettare che la sua campagna elettorale decida il nostro destino. Se parte la tariffa al 30 per cento, le nostre ritorsioni devono essere automatiche. Dobbiamo colpirlo prima che sia lui a colpirci davvero.
Lo stratega: Sì, ma se scatteranno senza aver fatto un ultimo tentativo, avremo solo dato a Trump un comodo nemico per la sua retorica. E agli industriali americani una ragione per stare zitti. La vera forza è costruire alleanze, non solo punizioni. La Commissione europea ha appena chiuso un accordo commerciale con l’Indonesia. E’ la strada giusta: diversificare, aprire, rafforzare. Non isolarsi. Le guerre commerciali sono l’oppio dei populisti.
Il duro: Un bell’accordo con l’Indonesia, certo. Ma tra sei mesi saremo ancora lì a trattare mentre Trump punisce le nostre aziende. E se poi vince le elezioni? Ce lo teniamo per altri quattro anni. Pensiamo davvero che una strategia attendista possa reggere con un presidente che considera l’Unione europea “peggio della Cina”? La pazienza non è una virtù se non porta risultati.
Lo stratega: Proprio per questo serve una strategia. Trump passerà, ma i rapporti transatlantici restano. La risposta dura va tenuta pronta. Ma è da usare solo se fallisce ogni altra via. E poi, chi l’ha detto che l’America è tutta con lui? Anche lì ci sono imprese, sindacati, governatori che non vogliono una guerra commerciale. Un’Europa paziente può isolarlo. Può fargli capire che attaccare Bruxelles è come colpire Boeing per punire Airbus.
Il duro: Un’Europa paziente è, nella narrazione di Trump, un’Europa debole. Lui ha bisogno di dire ai suoi elettori: “Li ho messi in riga”. Se non reagiamo, glielo permettiamo. E non pensiamo che ci saranno sconti all’Italia solo perché qualche ministro leghista tifa per lui. Ci colpirà comunque. E’ il momento di mostrare che esiste una soglia da non superare.
Lo stratega: La soglia esiste, certo. Ma non serve gridare per farla rispettare. Serve saper negoziare con fermezza. La Commissione ha già detto che, se i dazi entreranno in vigore il primo agosto, scatteranno le contromisure. E non si parla solo di prodotti agricoli. Anche aerospazio, farmaceutica, tecnologia. Nessuno farà sconti. Ma in questo momento, non è Trump che decide chi siamo.
Il duro: Allora perché aspettare? Non sarebbe più utile annunciare subito l’intero pacchetto di ritorsioni, invece di “prepararlo” come dice von der Leyen? Serve un segnale forte, ora. Altrimenti Trump penserà che ha carta bianca. E l’opinione pubblica europea, già diffidente verso l’America, si sentirà tradita da chi dovrebbe difendere i suoi interessi.
Lo stratega: Il segnale forte è proprio nella freddezza. E’ nella capacità di dire: non scendiamo al tuo livello. Non siamo il tuo nemico, ma non saremo nemmeno la tua vittima. E’ un equilibrio difficile, ma è l’unico che ci permette di vincere – non sul piano dell’orgoglio, ma su quello della realtà. L’Europa che vince non è quella che grida più forte. È quella che tiene la barra ferma quando il mare si agita.
Manca poco al primo agosto. Il bivio è lì: due visioni, due filosofie. La forza dell’Europa – e anche il suo limite – è che non decide con un solo uomo. Decide a ventisette. Ma anche questo, forse, è un antidoto alla demagogia muscolare. Non c’è una risposta giusta una volta per tutte. Ma c’è una domanda da porsi adesso: vogliamo davvero trasformare la più grande area di libero scambio del mondo in un’arena da wrestling?
Oppure vogliamo dimostrare che il commercio, come la politica, è ancora l’arte del possibile?