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I luoghi comuni da sfatare sui salari (e perché ci servono dati, non slogan)
Sfide salariali e realtà economica: perché è il momento di abbandonare le semplificazioni e investire in soluzioni concrete
In ogni bar, talk show o dibattito sindacale che si rispetti, c’è sempre qualcuno pronto a sentenziare: “I salari sono troppo bassi”, oppure “gli italiani non vogliono più lavorare”, o ancora “col salario minimo si chiudono tutte le imprese”. Sono affermazioni che suonano vere, che fanno presa, che rassicurano perché offrono risposte nette a problemi complessi. Ma sono spesso – se non sempre – luoghi comuni, cioè scorciatoie del pensiero che servono più a sfogarsi che a capire. Oggi, con l’aiuto dell’Oecd Employment Outlook 2025, possiamo provare a mettere ordine e verità in un dibattito spesso polarizzato. Spoiler: i salari sono un problema serio, ma le frasi fatte lo sono di più.
“I salari sono bassi perché la gente lavora poco”
Falso. I dati Ocse mostrano che nei paesi a bassa produttività i salari reali sono stagnanti da anni non perché si lavori poco, ma perché si lavora male: in settori a bassa innovazione, con poca formazione, con scarsa adozione tecnologica. L’Italia è un caso emblematico: la produttività per ora lavorata è tra le più basse dell’area Ocse, ma il numero di ore lavorate è tra i più alti. Quindi il problema non è il “poco lavoro”, ma il lavoro mal pagato in settori a bassa efficienza.
“Basta aumentare i salari per far ripartire tutto”
Magari. Ma è più complicato. Aumentare i salari nominali senza aumentare la produttività può avere effetti controproducenti, specie in economie aperte dove le imprese competono sui costi. Il rapporto Ocse invita alla cautela: servono politiche integrate, che includano investimenti nella formazione, digitalizzazione delle Pmi e sostegno all’innovazione. Non esiste la bacchetta magica salariale. Esiste, semmai, una politica industriale intelligente che permetta ai salari di crescere in modo sostenibile.
“I giovani non vogliono più fare sacrifici”
E’ un classico dei titoli indignati. Ma l’Ocse racconta un’altra storia: i giovani accettano spesso lavori precari, sottopagati, senza garanzie. La vera novità è che non sono più disposti a farsi sfruttare in silenzio. E fanno bene. Il 50 per cento dei giovani lavoratori nei paesi Ocse ha contratti temporanei o part-time non desiderati . Non è disimpegno: è un sistema che li tiene ai margini. Dovremmo chiederci non perché si licenziano, ma perché li abbiamo costretti a sopravvivere con stipendi da studenti.
“Il salario minimo distrugge il lavoro”
No. Se fissato con criterio e ben calibrato, il salario minimo può migliorare la qualità del lavoro senza effetti negativi sull’occupazione. L’Ocse mostra che nei paesi in cui il salario minimo è stato introdotto o aggiornato, non c’è stata una correlazione sistematica con la perdita di posti di lavoro. Anzi, può ridurre il turn-over, aumentare la produttività, spingere verso una concorrenza più leale. Il rischio non è il salario minimo, ma fissarlo troppo in alto o troppo in basso senza considerare le dinamiche settoriali.
“Tanto poi con l’inflazione si perde tutto”
Vero solo in parte. L’inflazione erode il potere d’acquisto, ma non è un motivo per congelare i salari. Al contrario: il mancato adeguamento ha portato, in molti paesi, a una caduta dei salari reali, con conseguenze sulla domanda interna, sulla fiducia e sulla coesione sociale. L’Ocse raccomanda politiche salariali che includano meccanismi di indicizzazione parziale, negoziazioni collettive dinamiche e forme di tutela per i lavoratori più esposti. Il punto non è “non alzare i salari per paura dell’inflazione”, ma farlo in modo intelligente.
“Le imprese non possono permetterselo”
Dipende. In molti settori a basso valore aggiunto, i margini sono effettivamente ridotti. Ma questo non giustifica il mantenimento di modelli occupazionali fragili, basati su stipendi da fame. Il rapporto Ocse mostra che i paesi che hanno investito nella trasformazione digitale e nella qualificazione della manodopera hanno potuto alzare i salari senza danneggiare la competitività. Quindi sì, è possibile. Ma servono politiche pubbliche che accompagnino il cambiamento. Non si può scaricare tutto sul lavoratore.
“Ma allora bisogna solo redistribuire?”
No. Serve produrre meglio, non solo redistribuire. Il vero nodo è l’accesso al lavoro di qualità. I paesi che riescono a combinare innovazione e inclusione hanno i salari più alti e una crescita più stabile. L’idea che si possa risolvere tutto con sussidi o bonus è miope: senza un’architettura economica che premi il merito e protegga la dignità, nessuna redistribuzione sarà sufficiente.
“Tanto le riforme non servono, decidono i mercati”
Un mantra molto comodo, ma infondato. Le riforme servono eccome. L’Ocse sottolinea che i sistemi che hanno riformato il fisco, modernizzato i contratti, reso trasparenti i salari, hanno ottenuto risultati superiori alla media. La politica non è impotente. E’ solo spesso poco coraggiosa. In un mondo che cambia così in fretta, lasciare le dinamiche salariali al caso o al ricatto concorrenziale è un errore. I mercati rispondono agli incentivi. E gli incentivi li costruiscono le scelte pubbliche.
Conclusione: meno frasi fatte, più politica vera
La questione salariale non si risolve a colpi di tweet, né di nostalgie novecentesche. Serve una politica del lavoro che metta insieme salari, produttività, innovazione e dignità. Serve un patto sociale nuovo, che non scarichi il cambiamento su chi ha meno strumenti per affrontarlo. Sì, i salari sono un problema. Ma lo è ancora di più chi li discute con frasi fatte, senza prendersi la responsabilità di cambiare davvero il sistema. La realtà è più intelligente dei luoghi comuni. E oggi ci chiede, più che indignazione, costruzione.