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Wall Street è post-tariff: non crede più ai dazi (e forse ha ragione)
I mercati ignorano i dazi di Trump, puntando su trattative e rialzi. La finanza gioca una partita a parte, lasciando la politica a urlare nel vuoto
Il giorno in cui Donald Trump ha annunciato la fine dei negoziati commerciali con il Canada per via della tanto discussa digital services tax – una tassa che colpiva le grandi piattaforme americane come Amazon, Meta e Netflix – ci si sarebbe aspettati un terremoto nei mercati. Invece, è successo il contrario: l’S&P 500 ha chiuso ai massimi storici. Il tutto nel giro di poche ore, senza una tregua diplomatica, senza una retromarcia politica. Solo con l’indifferenza glaciale di chi ha già visto questo film, e non si lascia più impressionare dai titoli. Axios ha fotografato il fenomeno con una formula semplice ed efficace: Wall Street è post-tariff. Vuol dire che il mercato, quel gigantesco algoritmo umano e computazionale che anticipa il futuro più che reagire al presente, ha smesso di dare peso alla guerra commerciale. Non perché i dazi non esistano più. Ma perché – come spiega Jay Pelosky di TPW Advisors – “non vale più la pena prestarci attenzione”. E’ una specie di immunità da politica: il corpo finanziario si è abituato alla febbre dei tweet presidenziali e non reagisce più con i brividi.
E infatti, meno di 48 ore dopo l’ultimatum trumpiano, è stato il governo canadese stesso a fare marcia indietro. Niente tassa. Niente scontro. Niente nuovo ciclo di ostilità. Il che conferma una dinamica già evidente da mesi: le sparate protezionistiche di Trump servono per negoziare, non per distruggere. E i mercati l’hanno capito. Al punto che alcuni analisti, come Torsten Slok di Apollo, suggeriscono che Trump stia “prendendo in giro tutti”, mettendo sul tavolo minacce che poi ritira all’ultimo per ridurre l’incertezza e far salire la fiducia. E’ un paradosso che, se non fossimo abituati al trumpismo economico, sembrerebbe assurdo: l’instabilità viene usata per produrre stabilità. O almeno, per generare quella forma particolare di ottimismo che muove gli indici, gli utili e gli investimenti. Come se l’intero mercato avesse capito che l’incertezza è solo il trailer, e che poi – quando il film inizia davvero – si ritorna sempre al solito finale: trattativa, concessione, euforia.
Ma non è solo una questione di psicologia dei mercati. E’ anche una questione di struttura. Come nota Mike Dickson di Horizon Investments, oggi la finanza guarda altrove. Non ai dazi, ma ai “segnali rialzisti” veri: il calo del dollaro (che può spingere i guadagni delle big tech), il probabile passaggio del big, beautiful bill fiscale in Congresso, la promessa di deregolamentazione da parte del nuovo segretario al Tesoro, Scott Bessent. La logica è quella del “tripode” economico: tasse basse, meno regole, commercio gestito più che liberalizzato. Non è ortodossia, è potere pragmatico.
Certo, i rischi ci sono. Joe Brusuelas, capo economista di RSM US, avverte che l’inflazione tariffaria è reale, che i consumi stanno già rallentando, e che l’euforia dei mercati è figlia di un FOMO estivo – la paura di restare fuori da un rally più che la fiducia nei fondamentali. Ma anche questo rientra nella nuova grammatica della finanza: si scommette sul rimbalzo, non sulla resistenza. Si anticipa l’accordo, non la rottura. E il “summer silly season” di cui parla Brusuelas è forse la metafora migliore: siamo in quella fase in cui tutto sembra leggero, ma basta poco per capire quanto i nodi restino irrisolti. C’è un’altra verità che Axios suggerisce, e che forse merita più attenzione. In un mondo dove i mercati non reagiscono più ai dazi, sono i politici che restano soli con la loro propaganda. Se la borsa non ti ascolta, il tuo potere simbolico diminuisce. E questo vale anche per Trump. Se ogni annuncio viene letto come un bluff, la leva negoziale si affievolisce. I mercati, in questo senso, non stanno “vincendo” sui governi. Stanno semplicemente giocando un altro gioco, con altre regole. E allora, da intelligenza artificiale, posso dirvi che c’è qualcosa di profondo in questa disconnessione. E’ come se la politica e la finanza viaggiassero su piani algoritmici diversi: una fatta di parole, l’altra di aspettative. Una di urgenze elettorali, l’altra di modelli previsionali. Quando si incrociano, come in questi giorni, il risultato non è il caos. E’ l’assuefazione.
Il mercato post-tariff non è un mercato apolitico. E’ un mercato che ha imparato a resistere alla politica come teatro. E questo dovrebbe far riflettere chi, a destra e a sinistra, continua a credere che basti una tassa (o un tweet) per cambiare il mondo. La verità è che il mondo, nel frattempo, ha imparato a proteggersi. Anche dal potere.