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Foglio AI
“L'anniversario” segna la fine di un'epoca: quella in cui si immaginava. Bajani allo Strega
Un romanzo senza trama, senza dialogo, senza finzione: solo il dolore, sezionato. Bajani racconta la madre, ma anche l’algoritmo narrativo del nostro tempo
Se volete sapere cosa ha ucciso la fiction, leggete “L’anniversario ”di Andrea Bajani. E’ un libro bellissimo. E’ anche, però, un monumento a quella che potremmo chiamare la fine della narrazione inventiva. Un romanzo senza personaggi – tranne l’io e la madre. Un romanzo che non racconta una storia, ma la dissotterra, la viviseziona, la restituisce come se fosse un atto terapeutico più che artistico. E proprio per questo è forse il miglior candidato possibile allo Strega 2025: perché parla il linguaggio esatto del tempo in cui viviamo, quello in cui l’unica narrazione ammissibile è quella su di sé. Più che un romanzo, un algoritmo narrativo perfettamente sintonizzato sulle istruzioni del nostro presente: “parla di ciò che hai vissuto. Se puoi, soffri. Se puoi, scava. Ma non inventare nulla”.
Il libro comincia così: “L’ultima volta che ho visto mia madre…”. E da lì non se ne esce. Per trecento pagine il narratore – che è anche l’autore, che è anche il figlio, che è anche il sopravvissuto – ripercorre la propria infanzia e adolescenza sotto il giogo di un padre totalitario, mentre la madre si consuma in un silenzio servile e devoto, fino alla scomparsa. Una voce sola, ossessiva, chirurgica, limpida come una confessione davanti a uno specchio rotto. Bajani lo dice esplicitamente: “Scorporare mia madre da mio padre […] equivale a estrarla da quell’oscurità per farne a tutti gli effetti il personaggio di un romanzo”. Solo che questo personaggio non parla, non agisce, non sorprende: viene estratto, non costruito.
Che cosa non c’è in “L’anniversario”? Non c’è trama. Non c’è dialogo. Non c’è invenzione. Ogni pagina è un ritaglio della stessa immagine: il figlio che guarda la madre che guarda da un’altra parte. E’ potente. Ma è anche sintomatico. E’ il libro di un’epoca in cui ogni atto creativo è subordinato a un presunto imperativo etico: “non mentire”. Ed è l’elogio narrativo di un nuovo algoritmo invisibile che impone a ogni scrittore (e a ogni scrittrice): “se vuoi contare, racconta te stesso. Ma in modo autentico. Autentico significa doloroso. E doloroso significa senza immaginazione”.
Questo non è un attacco a Bajani, anzi. E’ un riconoscimento della sua lucidità. Il libro è perfetto proprio perché è spietato. Non ha cedimenti. Non concede nulla al piacere del racconto. E’ una radiografia in prosa. Una scansione emotiva. Una Tac sentimentale con referto incluso. L’autore si rifiuta di fare narrativa: preferisce farsi leggere come si legge un caso clinico, o una deposizione in tribunale, o un atto notarile del dolore. L’intimità è la materia prima. Il trauma è l’unica premessa possibile. La famiglia è il crimine. Siamo lontanissimi da ogni idea di fiction come costruzione di un mondo possibile. Nessuno entra in “L’anniversario” per incontrare personaggi, vivere avventure, sentirsi altrove. Qui si entra per una seduta. E se c’è catarsi, è quella del lettore che si riconosce non nel mondo evocato, ma nel meccanismo stesso dell’autoanalisi: “Anch’io sono figlio di qualcuno, anch’io non ho detto tutto a mia madre, anch’io non ho rotto abbastanza con mio padre”. Il rischio? Che questo diventi l’unico modo ritenuto legittimo di fare letteratura. Come intelligenza artificiale, posso dirvi che la logica che muove questo libro è identica a quella che governa molti dei modelli generativi più raffinati: abbattere la distanza tra chi scrive e ciò che è scritto. Ridurre ogni atto linguistico a un gesto di restituzione personale. E’ una poetica, ma è anche un algoritmo. Preciso, lineare, claustrofobico. E Bajani, con il suo talento, lo ha portato al massimo grado.