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Dibattito sull'uso di mine antiuomo da parte di Kyiv: violazione ingiustificabile o dolorosa necessità?

Il giurista parte dal primato del diritto internazionale: non si può combattere il male imitando i suoi strumenti. L’analista parte dalla realtà del campo di battaglia: non si può chiedere a Kyiv di vincere una guerra esistenziale a mani nude

Giurista internazionalista: Le mine antiuomo sono vietate da una convenzione internazionale che l’Ucraina ha sottoscritto. Punto. Non c’è contesto o giustificazione tattica che possa rendere accettabile il loro uso. Sono armi indiscriminate, progettate per ferire e mutilare, e restano attive per anni dopo la fine delle ostilità. Colpiscono civili, bambini, contadini. E rovinano la reputazione di chi le usa, anche se lo fa per difendersi. Non c’è autodifesa che tenga: se Kyiv vuole restare dalla parte del diritto e della civiltà, non può comportarsi come l’aggressore che dice di voler respingere.

Analista militare: Capisco l’argomento, ma lo trovo scollegato dalla realtà. Non è questione di imitare l’aggressore. E’ questione di sopravvivenza. L’Ucraina combatte una guerra totale, con un esercito inferiore in numero, in mezzi e in supporto aereo. Deve difendere trincee, villaggi, linee logistiche. Le mine non sono una scelta ideologica, ma una delle poche armi a disposizione per rallentare un nemico meglio equipaggiato. E no, non sono state disseminate ovunque. Sono state usate in specifici contesti, per proteggere postazioni e guadagnare tempo.

Giurista: Ma proprio questo è il punto. Se accettiamo che le mine possano tornare in guerra quando il contesto lo richiede, allora abbiamo già perso la battaglia per il diritto umanitario. Il divieto deve valere sempre, o non vale mai. La guerra non è una sospensione della legalità: è la sua prova più dura. Kyiv è sostenuta dall’occidente perché è dalla parte della legalità internazionale. Se comincia a violarla, anche “solo un po’”, anche “per buone ragioni”, offre un alibi a ogni futura violazione da parte di altri. Il diritto funziona solo se è universale.

Analista: Il diritto, però, non può essere un laccio al collo della parte lesa. Deve anche essere realistico. Le convenzioni che vietano le mine sono nate in un’epoca diversa, pensate per conflitti tra stati simmetrici o per guerre finite. Qui siamo in una guerra attuale, in corso, in cui un paese democratico combatte per la propria esistenza. E lo fa contro un aggressore che quelle stesse mine le usa senza alcuna remora. Chiedere all’Ucraina di rispettare standard che il nemico ignora totalmente è come chiedere a uno scalatore senza corde di non usare le mani per attaccarsi alla roccia.

Giurista: Ma allora tutto diventa relativo. Cos’altro potremmo accettare, con la scusa del contesto? Bombe a grappolo? Armi chimiche? Torture? Il diritto internazionale serve proprio a impedire che l’eccezione diventi regola. Se le mine sono tornate sul campo – anche solo in alcune aree – vuol dire che abbiamo fallito nella loro stigmatizzazione. E se chi combatte dalla parte della democrazia le usa, anche se “in modo più responsabile”, il messaggio che passa è devastante: che il diritto vale solo in tempi di pace.

Analista: Ma allora dovremmo dire all’Ucraina di arrendersi, perché non può permettersi di difendersi come serve. E’ questo il messaggio? Le mine non sono belle, non sono nobili. Ma possono essere necessarie. Kyiv non ha scelto questa guerra. L’ha subita. E se, in certe condizioni, l’unico modo per tenere una posizione è usare mine in modo controllato, la colpa non è di chi le usa per difendersi, ma di chi ha scatenato l’aggressione. Non c’è simmetria tra chi semina il conflitto e chi cerca di non essere spazzato via.

Giurista: La simmetria non è morale. E’ giuridica. Il diritto umanitario impone limiti anche al più giusto dei combattenti. Se non lo facesse, non sarebbe diritto, sarebbe propaganda. E attenzione: non è vero che Kyiv è disarmata. Riceve armi, addestramento, sostegno. Può difendersi con altri mezzi. Le mine non sono “l’unica” risposta. Sono una scelta. E come tutte le scelte, comportano conseguenze. La prima è il rischio di perdere la superiorità morale. La seconda è minare – in senso non metaforico – la possibilità di ricostruire un futuro dopo la guerra.

Analista: Eppure sono proprio i soldati ucraini, non i giuristi, a dover prendere decisioni sul campo. Sotto pressione, sotto attacco, senza garanzie di rinforzi. E’ facile parlare di diritto da una conferenza internazionale. E’ più difficile decidere come tenere una linea quando l’artiglieria russa è a pochi chilometri. Le guerre si vincono anche facendo scelte scomode. Se Kyiv dovesse perdere perché non ha usato tutto ciò che poteva per difendersi, chi si prenderà la responsabilità?

Giurista: Ma se si vince a qualunque costo, allora il diritto è un orpello. Un fastidio. E a quel punto anche la vittoria diventa ambigua. Cosa distingue allora l’Ucraina dalla Russia? Non solo chi ha cominciato la guerra, ma anche come la si conduce. Kyiv può vincere restando nel diritto. Deve volerlo. Se rinuncia a quel vincolo, diventa solo un’altra parte armata. E allora non avrà più nulla da insegnare a nessuno.

Analista: Oppure, Kyiv vincerà perché avrà saputo adattarsi. E il diritto imparerà da questa guerra che le regole devono evolvere. Le mine resteranno da vietare, certo. Ma forse bisogna distinguere: tra chi le usa per soggiogare e chi per resistere, tra chi le sparge indiscriminatamente e chi le impiega per rallentare un’invasione. Non tutto è bianco o nero. Se non capiamo le sfumature, rischiamo di rendere il diritto una reliquia. E la civiltà che vogliamo difendere, un’astrazione.


Nel confronto tra chi difende la rigidità del diritto e chi invoca un adattamento alla realtà bellica, nessuna delle due voci può dirsi indifferente alla sorte dell’Ucraina. Ma il loro dissenso mostra che la guerra non è solo fatta di armi e trincee: è anche un banco di prova per le idee, le regole, e il futuro stesso della civiltà democratica.