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Il Foglio AI
Chi consiglia i consulenti? Un castello dorato che trema
L’analisi pubblicata dall’Economist descrive la crisi dell’intero modello della consulenza che l’AI sta rendendo obsoleto, tra perdite di valore, clienti più autonomi e rivali digitali. Mentre aziende come Palantir crescono triplicando il proprio valore
Chi consiglia i consulenti? La domanda, che un tempo faceva sorridere, oggi fa tremare le fondamenta di un’industria che ha prosperato per decenni sulla convinzione che ogni cambiamento, ogni crisi, ogni trasformazione richiedesse una guida esterna, competente, costosa e – soprattutto – umana. Eppure, nel 2025, non è più così scontato. La crisi che sta attraversando Accenture, colosso globale della consulenza e simbolo della capacità di adattarsi a ogni moda manageriale, ha qualcosa di epocale. Non è solo una battuta d’arresto. E’ una resa dei conti. Nell’ultimo anno e mezzo la sua azione ha perso il 7 per cento, bruciando circa 60 miliardi di dollari di valore in borsa. E questo nonostante il fatto che, tra il 2015 e il 2024, la società avesse generato un ritorno totale del 370 per cento, conquistando il cuore di investitori e analisti. Era la creatura perfetta per un mondo che cambiava: digitale, globale, sempre “in trasformazione”. Ma l’AI cambia le regole del gioco, e in modo brutale. Secondo un sondaggio S&P Global citato nella rubrica Schumpeter dell’Economist (28 giugno 2025), il 42 per cento delle aziende ha già abbandonato la maggior parte delle iniziative di AI lanciate negli anni passati: segno che molte promesse non si sono realizzate, ma anche che le imprese stanno prendendo il controllo diretto dei processi, senza intermediari. Il dato più allarmante è che, un anno fa, solo il 17 per cento dichiarava di aver fatto retromarcia. L’accelerazione è evidente. E chi è stato storicamente l’intermediario per eccellenza? Esatto: i consulenti.
Accenture ha tentato di reagire. Ha ampliato la sua storica alleanza con Microsoft, lanciando una “Copilot Business Transformation Practice” per aiutare le imprese a usare l’AI in modo integrato. Ha stretto una collaborazione con SAP per sostenere le PMI. Ma tutto questo non sembra bastare. I nuovi contratti legati all’AI sono calati, passando da 200 milioni di dollari a trimestre a 100 milioni. E il numero dei clienti attivi è sceso da 32 a 30 mila in appena tre mesi. La sua trimestrale ha deluso le aspettative. Le commesse pubbliche americane si sono contratte. E il titolo, che in febbraio aveva toccato un massimo storico, è oggi distante anni luce dai fasti recenti. Il problema è che l’AI non solo “aiuta” i consulenti: li sostituisce. O almeno minaccia di farlo. Sistemi intelligenti come ChatGPT aggiornano già infrastrutture IT e suggeriscono decisioni strategiche in tempo reale. Palantir, per esempio, permette alle imprese di comandare i propri sistemi attraverso il linguaggio naturale, riducendo la necessità di task esterni. Non è un caso che, mentre Accenture perde terreno, Palantir abbia triplicato la sua valutazione in due anni. Le aziende non cercano più qualcuno che spieghi loro come innovare: vogliono strumenti che lo facciano, senza intermediazioni, senza power point, senza workshop.
E qui si apre una questione più ampia. L’industria della consulenza ha costruito il proprio potere sulla complessità. Se il mondo è complicato, servono esperti per interpretarlo, per prendere decisioni, per guidare il cambiamento. Ma se la complessità viene ridotta da strumenti capaci di analizzare, sintetizzare e agire in modo autonomo, a cosa serve un consulente? E’ lo stesso dilemma che ha attraversato altri settori: i tassisti contro Uber, i cameraman contro le GoPro, i giornalisti contro Google e poi ChatGPT. Stavolta, però, è il cuore dell’economia a essere coinvolto. Lo scrive chiaramente anche il Schumpeter dell’Economist: “AI is not a digital co-pilot, it’s a guided missile”. Non è una tecnologia da addestrare: è una tecnologia che cambia radicalmente il rapporto tra chi offre soluzioni e chi le riceve. Perché il cliente, ora, può ottenere una diagnosi automatica del proprio problema, una proposta operativa, un piano esecutivo e persino una serie di simulazioni in tempo reale. Gratis. O quasi.
Accenture non è sola. Anche giganti come SAP e IBM stanno affrontando il ridimensionamento del proprio valore relativo. Ma la posizione di Accenture è più precaria, perché non possiede tecnologie proprie: è un’azienda di intermediazione, vive di relazioni, progetti, diagnosi. In una parola: vive della capacità di convincere le aziende che senza di lei non possono farcela. E se questo incantesimo si rompe, non resta molto.
Negli anni passati, Accenture ha avuto occasioni per mutare pelle: avrebbe potuto investire più a fondo in AI proprietaria, come ha fatto IBM con Watson. Avrebbe potuto entrare in modo aggressivo nei mercati dell’education tech, dei big data, della sanità. Invece ha preferito moltiplicare le acquisizioni nel settore della comunicazione e del marketing (tipo agenzie come Droga5, già partner di Meta), costruendo un impero fatto di narrazioni più che di soluzioni. Julie Sweet, la ceo che aveva guidato la crescita, ha tentato ora una riorganizzazione d’emergenza: ha diviso l’azienda in “reinvention services”, affidandola a Manish Sharma, guru delle operations, e a Mr. Sharm, nuovo volto della consulenza integrata. Ma anche qui il rischio è evidente: senza una visione forte, questa frammentazione potrebbe accelerare la decadenza, non arginarla. Se ogni unità diventa un “negozio a parte”, come promesso, chi tiene insieme la visione dell’insieme? E, soprattutto, il cliente è disposto a pagare per una visione che può ottenere con un prompt? Il dramma di Accenture è anche una parabola del capitalismo del nostro tempo. Le aziende che hanno prosperato vendendo l’idea di “reinventarsi” sono le prime a mostrare una fragilità estrema quando il cambiamento diventa reale. Quelle che per anni hanno consigliato agli altri di “disintermediare”, di “semplificare i processi”, di “andare oltre i silos” sono ora minacciate dalla stessa logica che hanno promosso. E’ un karma aziendale. Una nemesi che non fa sconti.
Eppure, la domanda finale resta aperta. Davvero possiamo fare a meno dei consulenti? O è solo un’illusione temporanea, un eccesso di fiducia nella potenza della tecnologia? Gli algoritmi possono ottimizzare, ma sanno creare? Possono guidare una transizione culturale, o solo eseguirla? Forse il ruolo dei consulenti cambierà, si trasformerà in qualcosa di nuovo, più simile a un coaching permanente che a un power point salvifico. Ma è difficile pensare che le imprese – incerte, conflittuali, politiche – possano cavarsela da sole solo perché hanno installato un plugin. Chi consiglia i consulenti? Forse presto lo scopriremo. Ma se anche loro, come i politici, finiranno per chiedere consiglio a ChatGPT, vorrà dire che il cerchio si è chiuso davvero. E che il capitalismo ha trovato il suo sostituto perfetto: se stesso, automatizzato.