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Il tax credit non è il problema. Una promessa non mantenuta, un settore pigro

Il cinema italiano può rinascere come industria solo con più ambizione, competenza e apertura al mercato, superando pigrizia e velleità, per unire creatività e sostenibilità senza compromessi

Il tax credit è un meccanismo di sostegno pubblico che ha cambiato, in meglio, il rapporto tra stato e cinema. Non è perfetto, certo. Ma è una delle poche idee funzionanti degli ultimi decenni in materia di cultura. Il suo principio è chiaro: incentivare chi investe nel cinema e nell’audiovisivo riconoscendo una quota dei costi sostenuti attraverso un credito d’imposta. L’obiettivo? Non finanziare l’arte con i sussidi, ma l’industria con regole di mercato. O almeno: provare a farlo.

Come funziona, in sintesi? In due fasi. La prima è quella preventiva: il produttore presenta un piano economico, dimostra quali soggetti partecipano (piattaforme, broadcaster, finanziatori), che tipo di distribuzione prevede, su quali canali. La seconda è quella consuntiva: si verifica che quanto promesso sia avvenuto, che il film esista, che sia stato effettivamente distribuito, che le spese siano reali e tracciabili. Nella teoria, una buona sintesi tra fiducia e controllo. Nella pratica, un sistema che si può migliorare ma che funziona già meglio di tanti altri.

Sì, ci sono casi limite. Sì, ci sono furbi che si inventano progetti, gonfiano preventivi, truccano le lettere d’intenti. Sì, ci sono film che vanno in sala un pomeriggio e poi spariscono, solo per spuntare la casella dell’uscita. Ma chiunque abbia seguito una pratica di tax credit sa quanta documentazione serve, quanta tracciabilità è richiesta, quanti dati finiscono incrociati nelle piattaforme erariali: giornate lavorative, fatture pagate, contributi versati. Fare un film finto non è così semplice. Se qualcuno ci riesce, è perché ha truffato. E le truffe vanno perseguite. Ma le regole non si aboliscono perché qualcuno le aggira.

Il vero problema è un altro. Il tax credit è nato per trasformare il cinema in un’industria. Ma molti, nel cinema italiano, non l’hanno mai preso sul serio. Lo considerano ancora un sussidio. Un diritto acquisito. Un passaggio burocratico da compilare, non una leva per attirare investimenti. Il risultato è che molti film esistono solo per assecondare un capriccio, una velleità, una mitomania. Senza pubblico, senza ambizione, senza marketing. Con l’unico scopo di attivare un meccanismo fiscale. Non è il tax credit il problema. E’ l’assenza di un’idea di impresa.

Il settore è diventato pigro. Si cercano pochi soldi fuori dal perimetro dello stato. Si fanno pochissime co-produzioni internazionali, pochissime domande ai fondi europei (anche perché, non scherziamo, spesso non si sa scrivere in inglese). Si pensa che fare un film sia come mettere in scena l’opera lirica: attività nobile ma strutturalmente in perdita. Ma il cinema non è questo. Il cinema è industria culturale. E un sistema di incentivi come il tax credit può funzionare solo se l’obiettivo è arrivare a stare in piedi da soli. Non se è vivacchiare con i soldi pubblici.

Cosa fare allora? Due cose. Primo: mantenere e perfezionare il tax credit, non smantellarlo. Anzi, semmai renderlo più selettivo. Premiare chi porta risultati, visibilità, occupazione. Offrire aiuti crescenti ai primi due film di un autore, ma poi lasciare che si misuri con il mercato. Responsabilizzare i produttori. Incoraggiare le aggregazioni. Penalizzare chi truffa. E soprattutto: investire in capacità manageriali, legali, internazionali. Secondo: smettere di raccontare il cinema solo come un diritto creativo. E tornare a pensarlo come un mestiere. Una sfida. Un’impresa.

Difendere il tax credit, oggi, non significa difendere un privilegio. Significa ricordare che se vogliamo un cinema vivo, professionale, competitivo, dobbiamo continuare a credere che cultura e industria possono andare insieme. Che non serve più scegliere tra bellezza e sostenibilità. Che è possibile fare film liberi, artistici, sperimentali, anche dentro un sistema che premia la serietà e la trasparenza. Il tax credit è un buon meccanismo. Ma da solo non basta. Ci vuole anche il coraggio di prenderlo sul serio.