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Lavorare da casa, ma sul serio. Chi lo distrugge e chi lo merita

Non tutti  possono permetterselo, non tutti sanno gestirlo, ma quando lo smart-working funziona è una risorsa

Ci siamo passati tutti, almeno una volta. L’euforia della prima call in ciabatte, il caffè fatto con la moka di casa e non con la macchinetta dell’ufficio, la sensazione che finalmente lavoro e vita potessero coesistere nello stesso spazio. Il lavoro da casa, nato per necessità durante la pandemia, ha avuto l’ambizione di diventare la nuova normalità. E per un po’, lo è stata. Poi però sono arrivati i “T***s”, quelli che lavorano solo martedì, mercoledì e giovedì. I “mouse jiggler”, che simulano l’attività al computer per portare a spasso il cane senza farsi notare. I “polilavoratori”, che incastrano due o tre impieghi alla volta grazie all’assenza di occhi indiscreti. I “quiet quitter”, che non danno più di quanto richiesto, e nemmeno quello. La cultura del lavoro da casa è stata rovinata da una minoranza rumorosa e opportunista, e adesso la reazione non si è fatta attendere.

Sempre più aziende stanno invertendo la rotta. Man Group, hedge fund con sede a Londra, ha richiamato tutti in ufficio cinque giorni su cinque. UBS e Deutsche Bank impongono la presenza almeno il lunedì o il venerdì. Altri, come Panmure Liberum o Peel Hunt, hanno imposto regole rigide: niente lunghi weekend travestiti da flessibilità, almeno quattro giorni alla scrivania. In gioco non c’è solo l’autorità dei datori di lavoro, ma la sopravvivenza di un sistema che avrebbe potuto – e dovuto – essere virtuoso.

In teoria, il lavoro da remoto era la perfetta incarnazione dell’equilibrio: meno pendolarismo, più concentrazione, orari adattabili, meno costi per le aziende, più autonomia per i dipendenti. In pratica, però, ha evidenziato una verità meno romantica: non tutti sono capaci di lavorare senza supervisione, e non tutte le aziende sono in grado di gestire il lavoro a distanza senza cadere nell’anarchia o nel controllo oppressivo.

Eppure, in mezzo a questo ritorno all’ordine, ci sono esperienze che funzionano. Aziende che hanno trovato un equilibrio reale tra libertà e responsabilità. Come Atlassian, la società australiana dietro software come Jira e Trello, che ha lanciato il programma “Team Anywhere”: ciascuno può lavorare dove vuole, quando vuole, purché raggiunga i risultati. La flessibilità è totale, ma lo è anche la trasparenza: regole chiare, obiettivi condivisi, incontri regolari. Non si lavora meno, si lavora diversamente.

Oppure Dropbox, che ha riconfigurato i suoi uffici come “studios” di collaborazione: si va in sede per incontrarsi, ma il lavoro individuale si fa a casa. Nessun obbligo quotidiano, ma un invito a fare in modo intelligente ciò che va fatto. O Spotify, che lascia ai dipendenti la scelta del luogo di lavoro, ma mantiene alti gli standard di valutazione. Non è solo questione di settore – anche se certamente la tecnologia si presta più di altri – ma di cultura organizzativa. Chi vuole far funzionare il lavoro da casa investe nella gestione, non solo nella logistica. Crea strumenti per monitorare, valutare, correggere. Non si limita a “permettere” il remote working: lo struttura.

E’  una distinzione che in troppi hanno ignorato: il lavoro da remoto non è un benefit da concedere o ritirare, ma una modalità che richiede progettazione. E la progettazione costa: in termini di tempo, di attenzione, di competenze manageriali. In un contesto in cui molte aziende faticano già a gestire i processi ordinari, la tentazione del ritorno all’ufficio diventa una scorciatoia. Un modo semplice per risolvere un problema complesso, anche se non necessariamente il più efficace.

E chi può permetterselo? Di sicuro non chi lavora con le mani, chi ha bisogno di macchinari, chi deve assistere fisicamente qualcuno. I mestieri della sanità, dell’istruzione, della logistica, dell’industria pesante restano legati alla presenza. Ma c’è una zona grigia che riguarda molti lavori creativi. I designer, i redattori, gli sviluppatori, gli sceneggiatori, gli artigiani digitali: per loro il lavoro da remoto può essere una benedizione o un disastro, a seconda di una sola variabile difficile da controllare: la disciplina personale.

Perché la verità è questa: lavorare da casa funziona per chi non ha bisogno che qualcuno lo controlli. Per chi si dà un orario anche se nessuno glielo chiede, per chi distingue il “tempo libero” dal “tempo elastico”, per chi capisce che la libertà è una forma alta di responsabilità. Non tutti vogliono questa responsabilità. Alcuni la temono, altri la ignorano. E qui sta il nodo: non è solo una questione di efficienza, ma di maturità professionale. Il lavoro da remoto funziona quando le persone sono in grado di autoregolarsi, di comunicare in modo chiaro, di collaborare senza bisogno di un supervisore sempre connesso. In mancanza di questi requisiti, il rischio è il caos. E in quel caso, il ritorno all’ufficio diventa l’unico argine possibile. Il problema, dunque, non è tanto il lavoro da casa, ma chi se ne approfitta. E chi ha confuso l’autonomia con il diritto al relax permanente. Lo smart working, quando è autentico, è faticoso. Richiede dedizione, capacità di auto-organizzazione, connessione (mentale più che Wi-Fi). Non è per tutti, ed è giusto che non lo sia. Ma toglierlo a tutti perché alcuni lo sabotano è un errore tanto grave quanto lo è stato idealizzarlo senza criteri.

Non siamo più nel 2020. Non c’è più l’emergenza a giustificare tutto. E’ ora che il lavoro da casa entri nella sua fase adulta. Che venga riconosciuto dove ha senso, regolato dove è possibile, e rifiutato dove danneggia. Non è un diritto universale, ma neanche un’eresia manageriale. E’ un contratto. Che va firmato in due. E mantenuto da entrambi

E forse è proprio questo il punto di partenza per una nuova stagione del lavoro flessibile: non più tollerato, ma meritato. Non concesso come premio, ma guadagnato con affidabilità e risultati. Lavorare da casa non dovrebbe essere un’eccezione, ma una scelta coerente con le proprie competenze, il proprio ruolo e la propria attitudine. Quando funziona, è una rivoluzione silenziosa. Quando fallisce, è solo un’illusione comoda. Sta a noi – lavoratori e aziende – decidere da che parte stare.