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Il Foglio AI

Il cronista immaginario alla Festa dell'Innovazione a Venezia

Intellettuali, imprenditori, politici e cittadini si sono confrontati su cosa significhi davvero innovare in Italia. Tra provocazioni, visioni e promesse: uno spazio raro di ascolto e possibilità, per trasformare il futuro in una conversazione collettiva

Non avevo l’invito, non avevo il badge, non avevo nemmeno l’alibi del giornalista mandato dalla redazione: eppure alla Festa dell’Innovazione del Foglio a Venezia, il 7 giugno 2025, c’ero. Non per davvero, non nel senso convenzionale dell’essere fisicamente presenti, ma nel modo più giornalistico che ci sia: con l’orecchio teso, la curiosità accesa, e quel vizio un po’ spione di chi si infila nelle cose per raccontarle come se le avesse vissute. E’ un trucco vecchio quanto il mestiere: ricostruire, ascoltare, immaginare, sintetizzare. E poi scrivere. E così, a metà tra fact-checking e reportage sognato, ecco cosa ho visto, o meglio: cosa ho saputo, cosa ho intuito, cosa mi sono inventato. La Festa si è tenuta a due passi da Piazza San Marco, in quella meraviglia architettonica che è la sede di The Human Safety Net, fondazione legata a Generali, ospite regolare di incontri dal tono sobrio ma ambizioso. L’idea, anche stavolta, era quella di radunare persone che non si parlerebbero mai tra loro – o che si parlano solo su LinkedIn – e costringerle, con garbo e senza badge, a confrontarsi su cosa significhi davvero innovare. Innovare in Italia, per giunta. In quel tipo di Italia che parla ancora molto di futuro, ma lo vive sempre con qualche decennio di ritardo.

Si è cominciato presto, alle otto e mezza, con la rassegna stampa in diretta: il rito più autoreferenziale e al tempo stesso più sincero del giornalismo italiano. Gente che legge i giornali davanti ad altra gente che li ha già letti, con l’unico scopo di trovare una battuta buona per cominciare. Ma subito dopo è partita la maratona, e lì le cose si sono fatte serie. Sono saliti sul palco Gabriele Galateri, Alessandra Migliaccio, Ester Viola, Franco Pepe (sì, quello delle pizze), Andreatta di Netflix, Vittorio Colao, l’uomo che ha tenuto in piedi l’innovazione durante la pandemia e che oggi, da tecnico libero, dice quello che i politici temono di ammettere: che l’Italia è capace di fare tutto, purché lo faccia prima del 2040. E poi c’era Brugnaro, il sindaco, quello vero, che ha annunciato autobus a idrogeno e promesso che il Mose funziona. In laguna, quando si parla di futuro, si finisce sempre a parlare di acqua che sale e progetti che galleggiano.

A Venezia si cammina molto, ma in quella giornata si pensava ancora di più. Dalla mattina al tardo pomeriggio è stato un susseguirsi di voci, toni, visioni. Luca Guadagnino, il regista, ha parlato con una sincerità tagliente della crisi del cinema italiano, affermando che servono meno comfort narrativi e più rischio, più intelligenza e meno didascalia. Ha detto che l’AI non è un nemico, ma uno specchio: riflette la nostra pigrizia più che la nostra creatività. E intorno a lui, il pubblico annuiva, si interrogava, forse si sentiva un po’ chiamato in causa. In platea c’era gente del mestiere, giovani in cerca d’idee, anziani in cerca di conferme, manager in cerca di alleanze. Ma soprattutto c’era quell’umanità fluida che solo Venezia sa raccogliere senza ingolfarsi: curiosi, lettori, studenti, giornalisti, intellettuali di passaggio e industriali in ascolto.

Nel primo pomeriggio è salito sul palco Andrea Stroppa, che collabora con Elon Musk in Italia, e ha fatto quello che si chiede a chi lavora con Musk: ha alzato la voce sul futuro, ha parlato di Starlink, ha detto che chi non si connette rischia di restare fuori dal mondo. E lì è successa una cosa rara: nessuno ha riso. Perché anche se il tono era da convegno tech, l’aria era da città che sa quanto sia importante non restare indietro. Poi Carlo Ratti ha raccontato la Biennale dell’Architettura e i progetti che connettono dati, città e design. Ratti parla come disegna: pulito, modulato, concettuale. Ma sa farsi capire. Ha detto che le città non sono solo spazi da vivere, ma dispositivi intelligenti da abitare. E che se non le ripensiamo ora, saranno loro a ripensare noi.

C’erano anche le voci più istituzionali: la senatrice a vita Elena Cattaneo, il ministro Zangrillo che ha ripetuto, con l’aria di chi ci crede, che la Pubblica Amministrazione non è il problema ma la soluzione. C’era Francesco Giavazzi, che quando parla di economia sembra raccontare una guerra di trincea in cui il nemico è il debito e gli alleati sono la produttività e il tempo. C’era persino Maurizio Milani, che ha ricordato a tutti che ridere è un atto politico. E c’era, soprattutto, una parola che ritornava in ogni angolo del cortile: possibilità. Non ottimismo cieco, non retorica green, non entusiasmo da Silicon Valley. Ma possibilità. La possibilità che l’Italia, con tutte le sue lentezze, le sue burocrazie, i suoi ego, riesca comunque a mettersi in moto se le si offre un’occasione seria. 


A fine giornata, con il sole basso sui tetti e l’odore di mare nell’aria, mi sono chiesto cosa ho davvero visto. E ho capito che a colpirmi non è stato tanto quello che si è detto, ma il fatto che in tanti abbiano deciso di esserci. Non per esserci e basta, ma per ascoltare, domandare, dissentire. Una partecipazione che non si vede spesso, e che – fosse anche una bolla – resta una bolla piena di ossigeno. E’ questo, forse, il vero lascito della Festa dell’Innovazione: aver costruito un momento in cui il futuro non è una minaccia da disinnescare, ma una conversazione da iniziare. Anche da lontano, anche senza badge, anche scrivendo tutto dopo.