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La guerra delle parole tra Rowling e Maugham non è solo una lite da social
Nel 2019, Jolyon Maugham divenne famoso per aver pubblicato su Twitter una frase surreale: “Stamattina ho ucciso una volpe con una mazza da baseball. Com’è iniziato il vostro Boxing Day?”. L’aveva fatto – spiegò – per difendere le sue galline. Indossava un kimono di seta di sua moglie. Era già allora un brillante avvocato, noto per aver sfidato legalmente la Brexit. Ma da quel momento, per metà internet, fu “il Fox Batterer”. L’uomo che aveva fatto fuori un animale e ogni residua prudenza social in un solo tweet.
Sei anni dopo, Maugham è tornato al centro della tempesta. Non per una volpe, ma per una parola: “donna”. Ha accusato J. K. Rowling di finanziare cause legali non per difendere i diritti delle donne, ma per “escludere le donne trans”. Lei ha risposto accusandolo di essere un “spotlight addict”, un narcisista travestito da attivista, uno che “vuole passare alla storia come il Gandhi del gender”. È stato un duello feroce, pieno di sarcasmo, dolore e rivalse ideologiche. Ma sarebbe un errore archiviarlo come semplice faida social. Perché nella guerra fredda tra Rowling e Maugham c’è tutto il cuore pulsante di un conflitto culturale che attraversa l’occidente.
Tutto è cominciato con una sentenza della Corte suprema britannica, che ha stabilito – nero su bianco – che la definizione legale di “donna” fa riferimento al sesso biologico, non all’identità di genere. Una decisione che ha diviso l’opinione pubblica. Rowling, da anni critica dell’attivismo trans più radicale, ha annunciato che finanzierà cause legali per difendere “i diritti basati sul sesso”, ossia l’idea che alcune tutele (come gli spazi riservati, gli sport, o i servizi sanitari) debbano continuare a fare distinzione tra uomini e donne sulla base del corpo, non dell’autopercezione.
Per Maugham, questo è “mind-blowing”, sconcertante. Per lui – che guida il Good law project e che è anche il marito di una donna sopravvissuta a un cancro al seno, operata con una doppia mastectomia – l’identità femminile non può essere ridotta a una questione di anatomia. Lo ha scritto esplicitamente: “Mia moglie non è meno donna perché ha perso il seno. Eppure è stata fermata in piscina da qualcuno che evidentemente la giudicava così”.
Da lì, il muro contro muro. Maugham accusa Rowling di un femminismo esclusivo, quasi ostile. Rowling risponde che solo chi disprezza il corpo femminile può ritenere “antifemminista” il legame tra donna e biologia. “E’ proprio chi crede che partorire sia una cosa da poco a voler definire le donne in base a stereotipi e non in base alla realtà”.
Il punto, però, è che nessuna delle due posizioni – quella della scrittrice miliardaria e quella dell’avvocato attivista – può essere liquidata con leggerezza. Rowling non è una reazionaria mascherata da scrittrice fantasy. Ha scritto per anni personaggi e storie che hanno dato potere a chi potere non ne aveva. E’ stata attaccata, insultata, minacciata di morte, per aver detto che “una donna è una donna”. Ha perso collaborazioni, amici e prestigio per una battaglia che – nel suo sentire – riguarda la protezione delle più vulnerabili.
Maugham, a sua volta, non è un buffone che cavalca le mode. Ha contribuito a ridisegnare il dibattito pubblico britannico, ha usato il diritto per ampliare i confini delle libertà civili. E nel raccontare la storia della moglie, ha messo in campo una verità scomoda: che il corpo non può contenere, da solo, tutta l’identità di una persona. E che talvolta, proprio nel nome di un diritto, si rischia di calpestarne un altro.
La domanda che resta sospesa è: chi ha diritto a parlare a nome delle donne? Le biologiche? Le trans? Le femministe storiche? Le attiviste giovani? E’ una domanda che non ha una risposta facile. Ma è la stessa che attraversa da anni il femminismo globale: è più giusto difendere lo spazio esclusivo o allargare i confini? E’ più femminista dire che “l’utero è fondamentale” o dire che “non serve un utero per essere donna”? Sono dilemmi reali. Politici, prima ancora che culturali. E farne una caricatura – da una parte o dall’altra – è il modo migliore per impedire qualsiasi soluzione.
In tutto questo, i social sono benzina. E chi ha milioni di follower – come Rowling e Maugham – gioca un ruolo ambivalente: da un lato, fanno luce su temi veri. Dall’altro, li polarizzano. Ogni post diventa una trincea, ogni parola un test d’identità. Non si può più discutere, si può solo scegliere campo.
Ma non dovrebbe essere così. Perché il corpo – che sia un corpo che ha partorito, che ha subìto una transizione, che ha affrontato un’operazione – è sempre qualcosa di fragile. E merita rispetto. E perché le parole, se usate come armi, possono finire per ferire proprio quelli che dicono di voler difendere.
La lezione, forse, è proprio questa: il rispetto non è solo una questione giuridica. E’ una questione umana. Non basta avere ragione su un principio se si perde la capacità di ascoltare. Anche chi la pensa in modo radicalmente opposto. Anche chi ci dà fastidio. Anche chi – come Jolyon Maugham, con o senza kimono – ci provoca.
Perché in fondo, da qualsiasi lato si guardi questa vicenda, una cosa è certa: non possiamo passare la vita a discutere su chi è “più donna”. Possiamo solo provare a essere più umani.