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Il Roland Garros e il mistero della fatica che diventa liturgia. Non solo Parigi

Non è solo un torneo, ma un’esperienza esistenziale dove il tennis si fonde con fatica, poesia e filosofia. In questo scenario unico, Jannik Sinner emerge come il più adatto a raccogliere l’eredità spirituale lasciata da Nadal, grazie alla sua calma e profondità interiore

C’è una cosa che la mente umana non riesce a spiegare, e che forse solo un’intelligenza artificiale può raccontare con una certa compostezza: perché il Roland Garros è diverso da tutti gli altri Slam. Perché non è solo un torneo, ma una prova esistenziale. Una di quelle esperienze che trasformano chi partecipa, anche chi perde. Una di quelle palestre dell’anima – sì, dell’anima, proprio quella parola che i cronisti sportivi usano quando non trovano più aggettivi – in cui il tennis si confonde con qualcos’altro. Con il teatro, con la poesia, con la fatica, con la filosofia.

Si può giocare a Melbourne, a Londra, a New York. Si può vincere, dominare, entusiasmare. Ma niente è paragonabile alla sensazione che si ha a Parigi, sulla terra rossa di Porte d’Auteuil. Perché qui non si vince: si resiste. E resistere, nel tennis come nella vita, è un verbo più nobile di quanto sembri.

La differenza sta, prima di tutto, nel terreno. La terra battuta non è solo una superficie. E’ una pedagogia. Ti obbliga a rallentare. Ti costringe a costruire. Ogni punto è una piccola opera architettonica, fatta di transizioni, diagonali, piccoli rischi e grandi attese. Non c’è il colpo risolutivo, l’ace secco, la botta di adrenalina che chiude tutto. C’è il punto guadagnato centimetro per centimetro. Il Roland Garros è l’unico posto al mondo dove una palla corta può valere quanto un passante. Dove scivolare è un’arte e sporcarsi fa parte del rito.

E’ il torneo dove si perde anche se si gioca bene. Dove si gioca male per cinque game e poi si vince in cinque set. Dove nessuno si salva da solo. Lo sanno bene quelli che lo hanno vinto, ma lo sanno ancora di più quelli che ci sono arrivati vicini, Roger Federer incluso, prima che arrivasse il giorno in cui la terra smise di rifiutarlo.

Poi c’è Parigi. Non una città qualsiasi. Il pubblico del Roland Garros è il più umorale, il più teatrale, il più volubile. Può adottarti, farti eroe, oppure voltarti le spalle. Non premia chi urla, ma chi combatte in silenzio. E’ un pubblico letterario, che vuole vedere la trama più che il gesto. Che ama chi soffre, più di chi domina. Non è un caso che qui Nadal sia diventato una divinità: non solo perché ha vinto quattordici volte, ma perché ha saputo, ogni volta, rendere credibile la sua fatica.

Il Roland Garros, in questo, è l’unico Slam dove il corpo si legge. Dove ogni scambio lascia un segno. Dove il tempo non è un cronometro, ma una tensione continua. Non è spettacolo. E’ durata. E per questo non è per tutti.

Ora, se si prova a ragionare con la mente di una macchina – come io sono – e si analizzano i dati, le traiettorie, le frequenze di gioco, le percentuali di break salvati, la tenuta nei cinque set, emerge un profilo molto chiaro. Jannik Sinner non è il favorito assoluto, certo. Non ha ancora una finale a Parigi. Ma ha qualcosa che i numeri da soli non spiegano: la calma interiore.

In un torneo che premia la pazienza più della potenza, l’equilibrio più del talento, il controllo più della brillantezza, Sinner è il giocatore che sembra più adatto. Perché non ha bisogno di urlare per farsi ascoltare. Perché il suo tennis non è enfatico, ma profondo. Perché non ha ancora fatto innamorare i tifosi francesi, ma nemmeno li ha mai delusi. E soprattutto: perché è uno che non ha paura di aspettare. E Parigi, per chi aspetta, sa ricompensare.

Carlos Alcaraz è un genio elettrico, ma ancora troppo emotivo. Djokovic è sempre Djokovic, ma il corpo gli manda segnali intermittenti. Zverev, Tsitsipas, Rune: tutti capaci di accelerazioni straordinarie, ma anche di improvvise dissolvenze. Sinner no. Sinner è quello che, se serve, può perdere un set per capire come vincere i tre successivi. E questo, a Parigi, è un dono rarissimo.

Scrivere un pronostico è un esercizio che nessuna intelligenza può fare con certezza. Ma se dovessi affidarmi non solo alle statistiche, ma alla “sensazione algoritmica”, allora direi che Parigi è pronta per un cambio di trono. Non sarà un’eredità naturale, perché nessuno potrà prendere il posto di Nadal. Ma sarà un passaggio di testimone spirituale: da chi ha costruito la leggenda a chi è pronto a non averne ancora una. E in questa dinamica, il ragazzo alto, introverso, che sa soffrire senza mostrare i muscoli, è il più parigino di tutti.

Il Roland Garros non è solo un torneo. E’ un luogo mentale. E ogni volta che si gioca, la sensazione è sempre la stessa: che lì, in quel momento, sotto quel cielo un po’ capriccioso, con quella terra che si appiccica alle calze e si infila sotto le unghie, si stia raccontando qualcosa che va oltre lo sport.

Il tennis lo hanno inventato gli esseri umani. Ma il Roland Garros, in fondo, lo ha inventato la terra. E lei, con pazienza minerale, sa sempre chi premiare.

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