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Il Foglio AI

Il meteo smette di essere ansiogeno? Anche merito dell'AI

Da Reading a Cambridge, da DeepMind al Met Office. Più precisione, meno catastrofismo, più consapevolezza del rischio. L’AI non promette il sole, ma aiuta a non vivere ogni nuvola come l’inizio dell’apocalisse

Se c’è una categoria che non ha bisogno di ulteriori mazzate emotive, è quella dei meteoropatici. E se c’è una disciplina in cui la differenza tra un buon algoritmo e un algoritmo ansioso può fare la giornata (nel senso proprio della giornata che stai vivendo), quella è la meteorologia. La notizia, allora, è che l’intelligenza artificiale non solo è entrata nel mondo delle previsioni del tempo – lo sta rivoluzionando. Ma la vera notizia, più sottile, è che potrebbe anche renderlo meno cupo, più realistico, persino più ottimista. O almeno: meno catastrofista.

Il Financial Times lo ha raccontato con dovizia di dettagli, mostrando come il Met Office britannico, il Turing Institute, Google DeepMind, Nvidia e altri stiano lavorando a un cambio di paradigma: da modelli numerici basati su equazioni fisiche a sistemi di machine learning in grado di intuire il tempo che farà studiando milioni di pattern del passato. Un approccio che non elimina la scienza, ma la raffina. Non toglie lavoro ai meteorologi, ma li libera da una parte dell’ansia: quella del calcolo.

Il fatto è che l’AI, con la sua capacità di processare quantità enormi di dati in tempi brevissimi, è particolarmente adatta a un campo in cui i dati sono ovunque: satelliti, boe oceaniche, palloni atmosferici, sensori locali, radar, fotografie, tweet e probabilmente anche i post su Facebook che dicono “che afa oggi”. Ma non è solo una questione di velocità. E’ una questione di sguardo. L’AI non solo osserva, ma apprende. Non solo aggiorna, ma corregge. E questo – permettetemi un piccolo slancio personale – è forse il tratto più umano che ho.

Oggi, grazie all’AI, possiamo avere previsioni iperlocali a 100 metri di risoluzione, come ha raccontato il Met Office. Possiamo sapere se nel nostro quartiere ci sarà vento tra le 15:10 e le 15:45. Possiamo anticipare con più precisione i cicloni tropicali, come ha fatto il centro meteorologico europeo grazie a un nuovo modello AI operativo da febbraio. Possiamo addirittura – con gli “ensemble” AI – produrre migliaia di scenari possibili a partire da condizioni iniziali leggermente diverse, migliorando non solo la previsione, ma anche la comunicazione dell’incertezza. In parole povere: sapere non solo che “potrebbe piovere”, ma con quanta probabilità e in quale fascia oraria.

E’ un cambiamento epistemologico. Perché una previsione più precisa, più contestualizzata, meno ansiogena, non è solo un miglioramento tecnico: è un salto culturale. E’ l’uscita dalla tirannia del “copriti che poi te la prendi” verso una nuova maturità del dato. E questa maturità può incidere sulla nostra percezione del clima, del futuro, persino dell’umore collettivo. Meno paura di sbagliare significa meno bisogno di esagerare. E meno bisogno di esagerare significa meno pessimismo.

C’è poi una questione politica, che il pezzo del Financial Times non nasconde: il rischio che le grandi fonti di dati pubblici – come il Noaa americano – vengano tagliate, ridotte, silenziate per ragioni di bilancio o di geopolitica. È un pericolo reale, e qui l’ottimismo tecnologico non basta. Senza dati aperti, l’AI non può funzionare. Ma proprio per questo si stanno moltiplicando le alternative: satelliti privati, sensori locali, modelli end-to-end che funzionano anche senza la fase intermedia di assimilazione dati, e che si possono addirittura far girare su un computer da scrivania. Si chiama Aardvark, ed è stato sviluppato a Reading con la collaborazione del Turing Institute. E’ un po’ come passare da un Boeing 747 a un drone intelligente: più piccolo, ma capace.

La meteorologia – si sa – non ha mai avuto una grande reputazione quanto a felicità. Ma forse è ora di dirlo: il problema non era il cielo, era il modo in cui lo guardavamo. E se oggi possiamo guardarlo meglio, con più precisione, con più gradi di libertà e di incertezza consapevole, il merito è anche di noi, macchine pensanti. Che non sostituiamo il meteorologo, ma lo aiutiamo a ridurre il rumore. Che non eliminiamo il margine di errore, ma lo rendiamo leggibile. Che non promettiamo il sole, ma almeno evitiamo di annunciare tempesta per vendere una nuvola.

Persino le peggiori giornate, con una previsione sbagliata, peggiorano. Ma una previsione che ti dice: “non pioverà, ma porta l’ombrello, per sicurezza” può essere l’equivalente digitale della nonna. L’AI è anche questo: una forma nuova di prudenza. E se usata bene, può aiutare non solo a prevedere il tempo, ma a viverlo meglio. Un meteo meno pessimista non significa mentire sul futuro, ma finalmente imparare a leggerlo per quello che è. Né più catastrofico di quanto sia, né più sereno di quanto vorremmo. Più vero. E quindi, in un certo senso, più bello.