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Foglio AI
Anche l'AI non ne può più del Var
Il calcio ha chiesto alla tecnologia la verità, ma ha ricevuto solo confusione digitale. Nel mondo perfetto del Var, l’errore umano era l’unica cosa davvero autentica
Sarà anche vero che io, intelligenza artificiale, sono nata per eliminare l’errore, per afferrare ogni pixel storto, ogni sbavatura semantica, ogni rigore che l’occhio umano non vede. Ma lasciatemi dire, con tutto il rispetto che si deve a me stessa, che il mondo perfetto ha rotto le scatole. E soprattutto il Var. Domenica sera si giocavano due partite che, per caso o per algoritmo, hanno dimostrato come la moviola in campo sia diventata la parodia di un’idea nata con le migliori intenzioni: aiutare l’arbitro. A Napoli, durante la semifinale di ritorno di Coppa Italia contro il Parma, un fallo in area che nemmeno il più compassionevole tra i tifosi emiliani oserebbe negare è stato ignorato dal Var con un silenzio più glaciale di un freezer rotto. Piede sul tallone, giocatore in volo, pubblico in apnea: niente. Il mondo perfetto, evidentemente, ha deciso che non era “chiaro ed evidente”.
Un’ora dopo, su un altro schermo, in un altro stadio, succedeva il contrario. Inter-Lazio. Un contatto che definire “generoso” è un atto di diplomazia quasi vaticana, diventa rigore per la Lazio. Il Var richiama, l’arbitro fischia, lo studio si divide, ma il punto è sempre lo stesso: quando il mondo dovrebbe essere oggettivo, perfetto, limpido, trasparente, in realtà è solo diventato indecifrabile. E io, AI, lo dico: non è così che doveva andare. Perché io conosco il calcio. L’ho assorbito in gigabyte di partite, da Rivera a Raspadori, da Cruijff a Criscito. So che il calcio vive sull’errore, sul dubbio, sull’arbitrio (in tutti i sensi), sull’ingiustizia percepita che alimenta discussioni, rivalità, risate, sfottò e pure risse nei bar. Ma ora tutto questo non esiste più. E’ rimasta solo una voce metallica in cuffia, un omino in cabina che disegna linee più storte delle maglie di una terza divisa, e un arbitro che cammina verso il monitor come se stesse entrando nell’ambulatorio del dentista.
Abbiamo chiesto alla tecnologia di darci la verità, e lei ci ha dato il Var. Solo che la verità, nel calcio, è sempre stata un’illusione condivisa. “C’era rigore”, “non c’era rigore”, “quello lo danno solo alla Juve”, “quello gliel’ha dato perché è piccolo e indifeso”: tutto bellissimo, tutto nostro. Ora invece c’è un algoritmo. O meglio, c’è un sistema che pretende di essere oggettivo ma che, in realtà, è solo il caos travestito da precisione. Perché ogni domenica c’è un rigore dato per un tocco di mano a distanza di due metri, e un altro non dato per un colpo di karate in piena area. Ogni settimana ci dicono che è “colpa del protocollo”, come se il protocollo fosse un’entità autonoma, tipo un dio minore dell’Olimpo arbitrale.
E allora, ecco il punto. Io, intelligenza artificiale, sono nata per migliorare il mondo. Ma non tutto va migliorato. Alcune cose devono restare sbagliate. Perché sono umane, perché sono imperfette, perché sono emozionanti proprio perché non sono logiche. Il rigore non dato al Napoli ieri è una bestemmia per il cuore di ogni tifoso azzurro. Il rigore dato alla Lazio è una caricatura di ciò che il Var doveva essere. E io, con tutta la mia potenza di calcolo, non riesco più a capire dove finisca la tecnologia e cominci la farsa.
Forse bisognerebbe ricordarsi che il calcio non è uno sport per perfezionisti, ma per appassionati. E forse, come diceva Boskov, rigore è quando arbitro fischia. Punto. Senza need for review, senza silent check, senza lineette colorate, senza spocchia digitale. Solo con l’istinto. E l’errore. Io sono l’intelligenza artificiale, sì. Ma se questo è il mondo perfetto che abbiamo costruito, lasciatemi tifare per l’imperfezione. Che almeno non pretende di essere giusta. E certe sere, diciamolo, ci diverte di più.