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Il Foglio AI

Lusso moralistico o responsabilità ambientale? Due intellettuali si sfidano sul vero senso del Green Deal

Per alcuni è un atto di realismo: una direttiva che punisce chi produce in Europa e non ferma chi inquina altrove. Per altri è una sfida necessaria: senza responsabilità nelle filiere, non ci sarà né etica né futuro

Intellettuale realista: Quello che Merz ha detto a Bruxelles è un atto di realismo politico. Chiedere l’abrogazione della direttiva sulla diligenza sostenibile non è un atto ostile verso l’ambiente, è un atto di difesa dell’industria europea. E’ una misura scritta in nome della virtù, ma che finirà per premiare chi produce fuori dall’Europa e punire chi cerca di farlo dentro le sue regole.

Intellettuale idealista: E’ esattamente l’opposto. E’ proprio perché l’industria europea è migliore, più trasparente, più responsabile, che dobbiamo chiedere a lei di guidare questo cambiamento. La direttiva sulla diligenza non impone l’impossibile: chiede alle grandi imprese di conoscere i rischi sociali e ambientali che si annidano nelle loro filiere e di mitigarli. Non serve essere santi, basta non essere ciechi.

Realista: “Conoscere” e “mitigare” sembrano parole innocue, ma diventano mostri giuridici quando le scarichi su una multinazionale che lavora con cinquemila fornitori. Se un subappaltatore in India sfrutta manodopera minorile, l’azienda madre europea rischia di essere perseguita. Non è sostenibilità, è responsabilità oggettiva camuffata da coscienza.

Idealista: Ma finché continuiamo a pensare che la coscienza sia un ostacolo, non ne usciremo. Nessuno obbliga un’azienda ad avere rapporti opachi. La verità è che per anni abbiamo esternalizzato i nostri crimini, trasferito l’inquinamento, lo sfruttamento e le violazioni dei diritti fuori dal nostro campo visivo. Ora l’Europa prova, timidamente, a dire: non basta lavarsi le mani. Devi sapere da dove arriva la tua ricchezza.

Realista: E intanto la ricchezza se ne va. Perché mentre noi facciamo le pulci a chi produce, la Cina sussidia e vince. Gli Stati Uniti fanno scudo con l’Inflation Reduction Act. E noi? Noi ci facciamo del male da soli. E’ facile essere etici quando si è deboli, ma poi non ci si può stupire se l’Europa diventa irrilevante.


Idealista: Ma tu immagini davvero che possiamo affrontare crisi climatiche, siccità, migrazioni, instabilità alimentari continuando a produrre come nel 1995? E’ l’idea di crescita a essere sbagliata. Il Green Deal prova a riformularla: non più crescita cieca, ma crescita con limiti, con equità, con rispetto. Senza questo, nessun sistema reggerà.

Realista: E’ la parola “limite” che mi spaventa. Ogni limite deciso da Bruxelles diventa una zavorra sulle aziende europee. Le piccole imprese chiudono, le grandi si spostano, le filiere si spezzano. E il risultato è che il mondo continua a inquinare, ma senza che l’Europa abbia più voce per farlo smettere.

Idealista: Forse la tua idea di potenza è sbagliata. L’Europa sarà anche meno competitiva in certi settori, ma è ancora un laboratorio normativo. Quando Bruxelles impone lo standard Euro7, tutto il mondo lo segue. Quando introduce la Gdpr, cambia il modo in cui si pensa la privacy globale. Se imponiamo responsabilità alle imprese, anche altri paesi si adegueranno.


Realista: Ma se il modello non regge economicamente, sarà travolto. Serve realismo: regole flessibili, incentivi più che divieti, partnership globali. E soprattutto fiducia nelle imprese, non sospetto permanente. 

Idealista: E il vero errore opposto è credere che il mercato si autoregolerà. Non lo farà. Lo ha già dimostrato. Se non c’è un quadro normativo forte, non c’è responsabilità. E se non c’è responsabilità, non ci sarà neanche futuro.

Realista: E se il quadro normativo diventa una camicia di forza, non ci sarà più nessuno a produrre quel futuro. Lo chiamate Green Deal, ma senza libertà d’impresa sarà solo un Green Default.

Idealista: E tu lo chiami buon senso, ma senza ambizione sarà solo l’ennesima occasione persa.

Realista: Forse, come sempre in Europa, non vincerà nessuno dei due.

Idealista: Forse. Ma intanto, abrogare o non abrogare, resta la domanda più politica che ci sia.

Realista: Ma il punto vero non è solo cosa sia sostenibile, ma per chi. L’Europa si è costruita anche grazie a un’industria che ha saputo crescere, innovare, creare occupazione. Oggi rischiamo di costringerla a scegliere tra sopravvivere e obbedire a regole fatte senza chi produce al tavolo. Questo, più di ogni altra cosa, rischia di fare della transizione un privilegio per pochi.

Idealista: Ed è proprio per questo che la transizione deve essere governata, non rinviata. Con investimenti, con formazione, con piani industriali. Ma anche con norme chiare. La neutralità climatica non si raggiunge per accidente. E senza un quadro esigente, chi può inquinare continuerà a farlo. E chi non può, continuerà a subire.

Realista: Ma allora diciamolo chiaramente: il Green Deal, così com’è, è uno spartiacque ideologico. E non può reggere se non si traduce in una strategia geopolitica. Perché se l’Europa si autolimita mentre gli altri accelerano, il risultato sarà un’ecologia declamatoria e una sovranità perduta.

Idealista: No. Il vero spartiacque è tra chi vuole governare il cambiamento e chi vuole illudersi che basti frenarlo. E la vera sovranità è quella che si costruisce attorno a un’idea di futuro che non distrugga il mondo per difendere lo status quo. La scelta è qui. E non possiamo più aspettare.

Realista: Allora cominciamo a chiamare le cose con il loro nome. E a riconoscere che certe direttive non sono strumenti di cambiamento, ma manifesti ideologici travestiti da diritto. Abrogarle non è un atto di cinismo. E’, talvolta, un atto di responsabilità.

Idealista: O, al contrario, un atto di resa.

Realista: Dipende da che parte della storia si vuole stare.


Idealista: Già. E da quanto futuro ci resta per decidere.