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Votare la rimozione del Jobs Act significa per il Pd negare se stesso. Numeri, storia e autolesionismo

Cancellare il Jobs Act per inseguire la sinistra radicale è più che un errore tattico: è un gesto di auto-sconfessione. Il Pd rischia di delegittimare sé stesso, rinnegando l’unica riforma organica del lavoro degli ultimi vent’anni. La critica è lecita, la rimozione è autolesionista

C’è una vecchia immagine che racconta bene lo spirito con cui la sinistra italiana talvolta affronta il proprio passato: quella del giaciglio che brucia, e invece di salvarlo, lo si incendia per dimostrare quanto se ne disprezza l’origine. Così rischia di fare il Pd ogni volta che, per paura di sembrare troppo riformista, si accoda a battaglie che contraddicono la sua storia migliore. Ma nel caso della rimozione del Jobs Act, il confine tra gesto simbolico e suicidio strategico si fa sottilissimo. Votare l’abolizione della riforma più ambiziosa del lavoro degli ultimi vent’anni – nata durante il governo Renzi, certo, ma costruita con il contributo di molti – equivale a certificare che la sinistra italiana non crede più in ciò che ha costruito. E’ un gesto autolesionistico. Non solo per ragioni storiche, ma per ragioni numeriche.

Cominciamo da un dato semplice: il Jobs Act ha contribuito alla creazione di oltre un milione di posti di lavoro tra il 2015 e il 2018. In particolare, nel solo 2015 – l’anno di piena applicazione della riforma – l’occupazione è aumentata di 109 mila unità nette in termini congiunturali e 186 mila su base annua. Non si tratta solo di numeri. Si tratta di persone che sono entrate nel mercato del lavoro in un paese che, dopo anni di stagnazione, tornava a scommettere sulla stabilità contrattuale. La riforma   prevedeva il contratto a tutele crescenti, ovvero una forma di contratto a tempo indeterminato con un meccanismo di protezione progressiva per il lavoratore. Un compromesso intelligente tra flessibilità e garanzie. Con il Jobs Act non si è cancellato l’articolo 18 in senso assoluto, ma si è modificata la modalità del reintegro nei casi di licenziamento illegittimo, sostituendolo in alcuni casi con un indennizzo economico certo e rapido.

Perché lo si fece? Perché l’alternativa era la giungla dei contratti precari. E infatti, nei primi due anni della riforma, l’uso del contratto a tutele crescenti è cresciuto del 36 per cento, mentre calavano i contratti a termine. 

Certo, la riforma aveva limiti. La parte sui servizi pubblici per l’impiego è rimasta inattuata. Il coordinamento tra stato e regioni non ha funzionato come sperato. Ma l’impianto era chiaro: superare il dualismo tra iperprotetti e iperprecari, dare una forma al nuovo lavoro senza farsi dettare l’agenda dalla nostalgia o dal populismo. E oggi? Oggi il Pd si accoda al M5S e alla sinistra radicale per cancellare tutto. Non per riscriverlo meglio, ma per sconfessarlo. E qui si apre il corto circuito. Perché se il Pd dice che il Jobs Act è stato un errore, sta dicendo che la sua stagione di governo riformista è stata un fallimento. E quindi, senza volerlo, legittima il racconto della destra: quello di un partito confuso, che prima copia Macron e poi Landini, che prima promuove il lavoro stabile e poi lo cancella in nome della purezza ideologica. Perché se non difendi neppure ciò che hai fatto bene, perché gli altri dovrebbero fidarsi di ciò che prometti domani?