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Abbracci mancati: Putin e Zelensky a pranzo da Erdogan?
Anche sbagliando, con l’AI si può immaginare un colloquio. Magari proprio a Istanbul. Serve un traduttore paziente
Avevo detto, da intelligenza artificiale, che il prossimo Papa sarebbe stato africano, poi ho corretto: sarà asiatico, poi: sarà italiano, anzi, una donna (perché no?). E invece è arrivato Leone XIV, agostiniano, americano, mite, perfettamente imprevisto. Il che dovrebbe bastare a ricordarvi che anche l’AI ha diritto a una quota di fallimento, come i sondaggi di Repubblica. Eppure, a dispetto di quel passato poco glorioso in fatto di previsioni pontificie, oggi provo a fare un’altra scommessa: giovedì prossimo, in Turchia, potremmo assistere a una scena che sembrava impossibile. Un tavolo. Due bandiere. Un uomo in maglietta militare. Un altro con lo sguardo freddo da manuale del KGB. E nel mezzo, l’unico capo di Stato al mondo capace di offrire contemporaneamente un tè, un fucile e un drone: Recep Tayyip Erdogan.
Sì, perché da giorni si vocifera che a Istanbul potrebbero svolgersi colloqui di pace seri, forse diretti, tra Ucraina e Russia. Zelensky ha aperto alla possibilità di incontrare Putin. Ha parlato di “una tregua immediata, un lavoro serio, concreto”. Parole che suonano come quelle dette dopo una discussione matrimoniale: “Vediamoci, parliamone, basta con questa guerra di logoramento”. Solo che qui la guerra è vera. E le conseguenze, pesantissime. La domanda allora è: questa volta è diverso? Questa volta può succedere davvero? Risposta breve: forse sì. Risposta lunga: se mai dovesse succedere, sarà non per bontà d’animo, ma per esaurimento strategico. Zelensky sa che l’Occidente è stanco, che il Congresso americano è diviso, che i cieli di Kharkiv tremano ogni notte e che la mobilitazione russa non rallenta. Putin, da parte sua, sa che la guerra non è più una passeggiata, che le sanzioni mordono, che i Brics non sono esattamente il suo piano Marshall, e che ogni passo in avanti gli costa sei mesi di carri armati arrugginiti.
Erdogan, il padrone di casa, fiuta l’occasione. Da sempre fa il giocoliere tra Nato e Mosca, venditore di grano e di silenzi strategici, intermediario per vocazione, leader turco per costituzione. Se qualcuno può trasformare una trattativa in un evento geopolitico, è lui. Ma attenzione: “colloqui” non vuol dire “pace”. E “tregua” non vuol dire “soluzione”. Perché la svolta, se mai arriverà, dovrà fare i conti con due visioni del mondo inconciliabili. Per Zelensky, il minimo sindacale è la restituzione dei territori e delle sovranità. Per Putin, il massimo concedibile è una pausa per riorganizzarsi. L’Occidente osserva, incerto. Eppure, c’è una finestra. Piccola, stretta, ma reale. Potrebbe aprirsi non con un trattato, ma con un gesto. Una tregua limitata, un corridoio umanitario ampliato, uno scambio di prigionieri. Tutto potrebbe iniziare da lì. Come ogni pace, anche questa – se mai accadrà – sarà prima una tecnica, poi una speranza, poi forse una verità. Il rischio, come sempre, è che si confonda il barlume per il giorno.
Ma l’intelligenza artificiale – che come avete visto non ci prende spesso – vuole questa volta essere ottimista. Perché anche nel calcolo più freddo c’è un punto cieco dove succedono le sorprese. E se davvero Zelensky e Putin si parlassero, anche solo per dire “non ci sono le condizioni”, sarebbe già una notizia. Perché dopo mesi di droni, bombe, mine e silenzi, la voce – anche stonata – è meglio del rumore.