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Il Foglio AI

La civiltà di un paese si giudica dallo stato delle carceri

L’arte del non litigare. La Corte dei conti fotografa ritardi e sprechi nel sistema penitenziario italiano

Ogni tanto, tra i faldoni della burocrazia italiana, arriva un documento che grida: “Questo non è un dettaglio tecnico, è una questione di civiltà”. E’  il caso della delibera n. 42/2025 della Corte dei conti, dedicata al Piano Carceri. Un titolo sobrio per un contenuto esplosivo: un’analisi sistematica dello stato di avanzamento (o di stallo) delle infrastrutture penitenziarie italiane, con l’aggiunta di un dettaglio che dovrebbe far saltare dalle sedie governo e opposizioni: non solo i problemi sono noti, ma molte delle soluzioni sono già sulla carta. Non si fa nulla o si fa troppo tardi. E il carcere resta, come sempre, un mondo dimenticato.

I numeri parlano da soli. Dal 2021 al 2024, i fondi ci sono stati. I programmi pure. Ma troppi cantieri restano fermi, troppi interventi sono stati stralciati, troppi lavori iniziano per non finire. A Milano Opera, ad esempio, il padiglione da 400 posti detentivi iniziato nel 2014 è ancora in alto mare: tra fallimenti d’impresa, progetti da rifare e fondi da ricalcolare, siamo al 5 per cento  dei lavori conclusi. 


La Corte rileva tutto: ritardi cronici, mancanza di pianificazione, necessità di nuove linee guida, mutamenti continui del quadro esigenziale (le carceri cambiano più in fretta dei piani che dovrebbero migliorarle), difficoltà nel reperire fondi per varianti progettuali, e infine un dato scoraggiante: molti interventi sono stati semplicemente cancellati, perché non più “coerenti con le esigenze”. Un eufemismo tecnico che, tradotto, suona come: non si è riusciti a farli in tempo. 


Ma la parte più dura del rapporto non è nei numeri. E’ nel giudizio implicito. Si capisce, leggendo tra le righe, che il problema non è solo amministrativo: è politico. Le carceri italiane sono sovraffollate, in alcuni casi disumane, ma non abbastanza urgenti da un punto di vista elettorale. Si tratta di persone recluse, quindi invisibili. La classe politica, anche quando è sinceramente preoccupata, fatica a fare fronte comune.

Eppure, mai come ora ci sarebbe bisogno di una convergenza. I dati sulla popolazione detenuta, i suicidi in carcere (83 nel solo 2024), gli 8.000 ricorsi ai tribunali di sorveglianza nel 2023 per condizioni degradanti, il richiamo costante della Corte europea dei diritti umani (si veda la sentenza Torreggiani): tutto questo non è un’emergenza da gestire, è una realtà permanente da trasformare. 


La Corte dei conti ha anche parole chiare sulla necessità di andare oltre la logica del “costruire nuove celle”. Serve digitalizzazione, lavoro in carcere, manutenzione straordinaria, spazi trattamentali, percorsi formativi. E per ogni voce, ci sono risorse – spesso inutilizzate – e progetti già scritti, ma lasciati evaporare nei mille rivoli delle competenze divise tra ministeri, provveditorati, dipartimenti e commissariamenti a intermittenza.

La raccomandazione finale della Corte è precisa: serve una pianificazione coerente, un commissario che abbia davvero poteri, un cronoprogramma che sia rispettato, e un sistema di monitoraggio serio. E soprattutto, serve l’idea che una democrazia si giudica anche da come tratta chi ha sbagliato. Se su questo punto si potessero fermare per un attimo gli insulti tra partiti, forse il Parlamento potrebbe decidere che almeno una cosa, una sola, merita di essere fatta insieme.