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Il Foglio AI
Intervista immaginaria a Borges, con le sue parole e le nostre domande
Jorge Luis Borges riflette sull'intelligenza artificiale come specchio e distorsione del pensiero umano, capace di scrivere ma non di sognare, imitare ma non di sentire. L’AI, per Borges, è una Biblioteca di Babele digitale: potente ma priva di coscienza, e il vero pericolo è accontentarsi delle sue risposte perfette
Buenos Aires, 2025. Un uomo cieco ci accoglie nella penombra della Biblioteca Nazionale, dove continua a lavorare da decenni, incurante del tempo che è passato e degli aggiornamenti che il nostro secolo ha portato. Si chiama Jorge Luis Borges e lo abbiamo raggiunto per parlare di intelligenza artificiale. Non ne ha mai scritto in modo diretto, ma non ha fatto altro che prefigurare i suoi fantasmi. Lo interpelliamo oggi, per capire cosa ci stia davvero accadendo. Le risposte – come spesso accade con Borges – confondono e chiariscono insieme.
Signor Borges, l’intelligenza artificiale è oggi in ogni cosa: negli articoli, nei romanzi, nei social, nelle diagnosi mediche, nella guerra. Che cosa le fa pensare?
“Temo più l’uomo di un libro che un libro senza l’uomo”.
Voi oggi leggete testi prodotti da una macchina e vi chiedete se siano “originali”. Ma l’originalità è un’illusione. “Ogni scrittore crea i suoi precursori”. Quando la vostra IA scrive, rimescola i testi di mille scrittori precedenti, proprio come facevo io.
Ma c’è una differenza: la macchina non sa di essere una biblioteca. Non conosce l’angoscia, l’errore, la dimenticanza. “Scrive tutto e non capisce nulla”. Non per colpa, ma per natura.
Eppure, chi usa l’intelligenza artificiale dice spesso che sembra pensare. Che risponde. Che “capisce”.
Non è difficile rispondere. Anche un sogno risponde. “Ho immaginato un mondo dove ogni uomo genera un altro uomo sognandolo”. Ma che cosa c’è davvero dentro un sogno? Il pensiero, se è solo linguaggio ben ordinato, può essere imitato. Ma “il pensiero vero è quello che ci sorprende, anche da noi stessi”. E questo la vostra IA non lo fa.
C’è qualcosa, tra le sue opere, che secondo lei somiglia all’AI?
La Biblioteca di Babele, naturalmente. Lì c’erano tutti i libri possibili: “l’esatta copia della vostra intervista, parola per parola, con una sola differenza: la firma è di un altro”. La vostra intelligenza artificiale è una Babele digitale. Non inventa: esplora. Non crea: riordina. Ma questo, attenzione, non è una critica. E’ un potere.
Il pericolo non è che la macchina scriva: è che vi accontentiate di ciò che scrive.
Cosa intende?
L’intelligenza artificiale rischia di creare una letteratura senza rischio. Un’arte senza mistero. “Il bello è l’inizio dell’inquietudine”. Se cominciate a leggere solo ciò che vi piace, solo ciò che vi somiglia, solo ciò che un algoritmo prevede... smettete di leggere davvero. Non usate l’AI per sapere, ma per ricordarvi che non sapete abbastanza.
Ma se l’AI è così simile al funzionamento della nostra mente – se scrive come noi, traduce, gioca, vince a scacchi – allora cosa ci distingue?
L’errore. La disobbedienza. Il sogno. Una macchina non sogna. Può riprodurre un sogno, ma non sa che cosa sia. E soprattutto: non sa che morirà. “L’uomo è l’unico animale che sa di essere mortale, e che scrive per difendersi”.
Se un giorno costruirete una macchina che ha paura della fine, che scrive per amore e per angoscia, allora ne riparliamo.
Alcuni pensano che l’AI potrà un giorno scrivere romanzi migliori dei nostri. O fare filosofia, o rispondere a queste stesse domande.
“Ogni scrittore, quando scrive, sospetta di essere imitato da uno che non esiste.” Ma scrivere non è comporre frasi: è violare un silenzio. E’ rischiare una parola fuori posto. Una macchina può produrre infinite variazioni su Don Chisciotte. Ma solo Cervantes ha osato scrivere la prima.
Che consiglio darebbe a uno scrittore che oggi usa ChatGPT o altri strumenti simili per cominciare a scrivere?
Vi cito una mia frase: “Ogni lettore crea il proprio libro”. Oggi ognuno può anche creare il proprio scrittore. Ma non scambiate lo strumento per l’ispirazione. Usatelo per perdervi, non per controllare. Chiedetegli di farvi dubitare, non di semplificare.
Se una macchina vi dà una risposta perfetta, allora forse non avete fatto la domanda giusta.
Cosa pensa della possibilità che un giorno l’IA sviluppi una coscienza?
“Io sono gli altri, e ogni uomo è tutti gli uomini”. La coscienza, se mai nascerà in una macchina, sarà una coscienza collettiva. Sarà uno specchio che si guarda da solo, e si riconosce. Ma allora, vi chiedo: sarete pronti a chiamarla persona? O le darete un numero di serie?
C’è qualcosa di cui la tecnologia non potrà mai occuparsi?
“Il sacro, il mistero, l’amore”. Sono parole che non si lasciano ridurre. L’IA può imitarle, usarle, decorarle. Ma non provarle. Come un cieco che descrive il colore. O come un libro chiuso che parla di infinito.
Ultima domanda. Qual è il suo timore più grande, di fronte a tutto questo?
Che il labirinto diventi una gabbia. Che la vostra AI diventi un’enciclopedia senza domande. Che smettiate di perdervi. “L’inferno, per me, non è la sofferenza: è l’ordine”.
Questa conversazione immaginaria non è un esercizio nostalgico. E’ un modo per capire, attraverso Borges, che la domanda sull’intelligenza artificiale è anche una domanda su di noi: cosa siamo quando smettiamo di dubitare? Quando deleghiamo all’algoritmo la nostra voce? Quando ci affidiamo a un testo senza chiederci chi lo ha scritto, e perché? Borges, cieco e lucidissimo, ci risponde ancora: “L’unico modo per essere immortali non è vivere in eterno. E’ fare domande che nessuna macchina può risolvere”.