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Il Foglio AI
I limiti del trumpismo economico visibili all'audizione di Bessent
Favori ai ricchi, scarso realismo fiscale, visione strategica debole e ricette vecchie per un mondo nuovo
Se si vuole capire cosa sta succedendo oggi nel dibattito globale sui dazi, e perché la nuova Amministrazione Trump sembra incapace di guidarlo davvero, conviene tornare all’audizione di gennaio in Senato per la nomina di Scott Bessent a segretario del Tesoro. Fu una lunga e acclamata investitura, quasi un’ode bipartisan alla competenza tecnica del candidato, alla sua pacatezza, alla sua storia personale. Ma sotto l’eleganza, l’incontro con i senatori ha reso chiarissimi i punti ciechi del trumpismo economico. Oggi, tra nuove tariffe generalizzate, tensioni con l’Europa, proteste interne e attese di ritorsioni da parte di Cina e Messico, quelle debolezze sono diventate problemi.
I dazi? Sì, ma senza piano
Il punto più contestato dai senatori democratici – ma anche da qualche repubblicano prudente – era la mancanza di una visione strategica sulle tariffe. Trump aveva promesso dazi del 10 per cento su tutte le importazioni. Bessent li ha difesi, non come strumento selettivo o tattico, ma come scelta strutturale. Peccato che, interrogato più volte da Ron Wyden e Tina Smith su chi avrebbe pagato quel costo, abbia risposto con un esercizio da manuale di economia teorica: “Le valute si aggiusteranno, le elasticità cambieranno, i produttori stranieri assorbiranno il colpo”. Nessuna evidenza. Nessuna simulazione concreta. Nessun accenno agli effetti su famiglie, PMI, agricoltura. Oggi che i dazi stanno entrando in vigore e i prezzi cominciano a risalire, si capisce quanto pericolosa fosse quella vaghezza. Bessent ha detto che i dazi sono “come una tassa sul consumo” ma negato che graveranno sui consumatori. E’ un wishful thinking. E lo sanno anche a Wall Street.
L’illusione della Cina
Molte delle nuove tariffe sono giustificate come risposta alla “competizione sleale” cinese. E Bessent ha insistito su questo: “La Cina è l’economia più squilibrata del mondo”, ha detto. “Vogliono esportare per uscire dalla crisi”. E’ vero. Ma il passo successivo – pensare che basti un dazio per fermarli – è ingenuo. Di fronte a una Cina in crisi, con un surplus che cresce e una valuta che si deprezza, una guerra tariffaria generalizzata può anche rafforzare il nazionalismo economico cinese. Senza alleanze, senza strumenti multilaterali, senza regole, il rischio è che si apra un conflitto infinito, dove a pagare saranno imprese americane, consumatori, e l’intero ordine commerciale mondiale. In Senato, Bessent non ha mai spiegato se e come gli Stati Uniti vogliano coinvolgere l’Europa, il Giappone, o l’India in una strategia comune. Il rischio è che i dazi, più che colpire la Cina, finiscano per isolare l’America.
Gli effetti interni? Irrilevanti
La cosa più stupefacente, ascoltando il Bessent dell’audizione, era la sua apparente indifferenza verso gli effetti interni dei dazi. A una domanda esplicita della senatrice Hassan sul possibile aumento dei prezzi per famiglie e imprese, Bessent ha risposto: “Non ne vedo nessuno”. Quando il senatore Wyden ha chiesto “chi pagherà i dazi?”, lui ha sostenuto che saranno le imprese cinesi a tagliare i loro margini. Eppure, gli stessi repubblicani vicini al mondo industriale – come Bill Cassidy o John Cornyn – hanno espresso dubbi. Come può un governo che dice di voler aiutare le famiglie a uscire dalla crisi dei prezzi, accettare una misura che colpisce beni essenziali, componenti industriali, materie prime?
La contraddizione più grande: dazi per finanziare tagli fiscali
L’aspetto più paradossale della nuova dottrina trumpiana è che i dazi vengono usati anche per giustificare nuovi tagli fiscali. Bessent ha difeso con vigore la necessità di rendere permanenti i tagli del 2017, nonostante il costo stimato di 4,3 trilioni di dollari. E alla domanda su come finanziare tutto ciò, ha elencato tre voci: tagli alla spesa discrezionale, maggior crescita… e nuove entrate da tariffe. I dazi, insomma, non sono una leva geopolitica: sono una tassa regressiva per finanziare una detassazione regressiva. Gli americani pagano di più su ciò che comprano, per permettere ai ricchi di pagare meno sul proprio reddito.
Nessuna priorità: tutto è sacrificabile, tranne i tagli ai ricchi
Mentre difendeva tagli fiscali per miliardari e grandi imprese, Bessent ha rifiutato ogni impegno su spese sociali, infrastrutture, sussidi per la salute. Ai senatori che lo incalzavano – “difenderà il credito d’imposta per le famiglie?”, “manterrà il sostegno al sistema sanitario?”, “taglierà Head Start?” – ha risposto sempre con un educato: “non so”, “mi informerò”, “dobbiamo valutare tutto”. La sola cosa su cui era assolutamente certo era che i tagli del 2017 devono restare. Per tutto il resto, si vedrà. Una gerarchia di valori chiara, ma rivelatrice.
Politica energetica: più carbone, meno visione
Anche sul fronte energetico, le risposte di Bessent durante l’audizione hanno mostrato la scarsa coerenza del trumpismo. Dopo aver detto che “non esiste una corsa al clean energy, ma solo una corsa all’energia”, ha difeso l’idea di smantellare le agevolazioni per le rinnovabili contenute nell’Inflation Reduction Act, mentre lasciava in vita i sussidi per petrolio e gas. Ha promesso “dominanza energetica” ma senza dire come combinarla con una strategia di decarbonizzazione, né come affrontare la concorrenza cinese su batterie, auto elettriche, pannelli solari.
Nessuna risposta sulla crescita vera
Molti senatori hanno provato a chiedere quale sia, in concreto, la strategia per la crescita: oltre ai dazi e ai tagli fiscali, cosa? Quali settori? Quali investimenti? Quale visione industriale? Ma Bessent ha offerto solo slogan (“rilanceremo la classe media”, “ripartirà la crescita”) e rassicurazioni generiche. Nessun piano credibile per l’innovazione, la produttività, l’educazione, la ricerca.
Cinque mesi dopo, tutto torna
Oggi che le prime misure sui dazi sono operative, che l’Europa prepara contromisure, che il Canada minaccia ricorsi al WTO, che le imprese USA aumentano i prezzi, che i sindacati denunciano rischio occupazionale, che i mercati sono nervosi, si vede quanto quell’audizione non fosse un rituale. Era un trailer del film che stiamo guardando adesso. La nuova amministrazione Trump, più che “correggere gli errori di Biden”, sta ripetendo i propri del passato. I dazi diventano un sostituto del pensiero economico, i tagli fiscali un dogma da finanziare con qualunque mezzo, la politica industriale un collage di dichiarazioni senza coerenza.
La voce pacata di Scott Bessent, che in aula ripeteva “sì, Presidente”, “ci penserò”, “lo studieremo”, era la musica di sottofondo di una macchina economica costruita per una direzione sola: rendere ancora più forte chi è già fortissimo, e farlo pagare a tutti gli altri. Ora che le conseguenze si avverano, è tempo di riprendere quella audizione in mano, e trarne una lezione: senza visione, senza alleati, senza verità, il trumpismo dei dazi è un castello di carte.