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Riconvertire l'industria dell'auto dal volante al cannone. Non è un'eresia
Mentre l’industria automobilistica europea arranca tra crisi strutturali e transizioni incompiute, la difesa torna a fare da traino agli investimenti pubblici. Più che un ritorno al passato, potrebbe essere l’unico modo per salvare competenze, impianti e lavoro
Siamo cresciuti pensando che l’industria automobilistica fosse il polmone civile delle economie avanzate, la vetrina tecnologica, il cuore stesso della modernità. Oggi, leggendo le notizie che arrivano da Jaguar Land Rover, da Nissan, da tutta una filiera europea in sofferenza, viene il sospetto che il futuro prossimo sia meno lineare di quanto ci hanno raccontato. E che, magari, la provocazione lanciata da qualcuno – riconvertire parte della produzione automobilistica in produzione di mezzi militari – non sia solo una battuta cinica da tempo di guerra, ma una possibilità reale. I numeri sono implacabili. La crisi dell’auto non è passeggera: tariffe, calo della domanda, transizione forzata all’elettrico, costi energetici esplosi. Perfino gli impianti più efficienti, come Sunderland o Oxford, si ritrovano a collezionare perdite. E dall’altra parte? C’è una domanda militare che cresce come mai negli ultimi decenni. Germania, Francia, Regno Unito, l’intera Unione Europea stanno sbloccando centinaia di miliardi per difesa comune, deterrenza, riarmo. Sarebbe davvero insensato non vedere l’opportunità che si sta aprendo.
Certo, riconvertire in toto l’industria dell’auto sarebbe una follia. Continueremo ad aver bisogno di automobili, anche se meno, anche se diverse. Ma pensare che una parte della capacità produttiva – fabbriche, competenze, catene logistiche – possa essere indirizzata verso la difesa non è solo sensato: è pragmatico. Non si tratta di militarizzare l’economia. Si tratta di salvare competenze che rischiano di svanire, di evitare di licenziare decine di migliaia di operai formati, di impedire che intere filiere industriali finiscano polverizzate in nome di una transizione mal pianificata. Non sarebbe nemmeno una novità storica. Durante la Seconda guerra mondiale, le stesse fabbriche che avevano sfornato automobili passarono a costruire carri armati, aerei, elmetti, munizioni. E oggi, di nuovo, quel tipo di intelligenza manifatturiera rischia di andare sprecato se ci ostiniamo a pensare che l’auto debba rimanere l’unico destino possibile.
Certo, ci sono ostacoli. I fondi europei per la difesa sono ancora largamente teorici. La politica potrebbe perdere il coraggio se il vento della guerra cambiasse improvvisamente direzione. I vincoli protezionistici, come sempre, complicano la vita. Ma il dato di fondo rimane: la domanda militare cresce, la produzione civile arranca. Negare la possibilità di un punto di contatto tra questi due mondi sarebbe miope.