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Il Figlio

Cosa accade quando la vita di un altro irrompe nella nostra? La guerra dentro

Giuseppe Fantasia

Il romanzo di Viola Ardone "Tanta ancora vita" racconta la storia del bambino ucraino Kostya che viene mandato in Italia dal padre alla ricerca di una costola della sua famiglia. La narrazione affida al lettore il compito sottile di restare disponibile all’incontro anche quando è scomodo e fa male

Che cosa accade quando la vita di un altro irrompe nella nostra? La letteratura si nutre di domande che non hanno una risposta univoca, ma che spalancano crepe nei nostri assetti interiori. E’ da qui che prende le mosse Tanta ancora vita (Einaudi Stile Libero), con cui Viola Ardone, abbandona la forma del romanzo storico per avventurarsi nel tempo presente – lacerato, instabile e in apparenza privo di coordinate – per tornare a interrogare le forme del legame, della responsabilità e della cura. 

 

C’è un passato che preme, un rimosso del Novecento che ritorna, travestito da presente: ciò che pensavamo archiviato – l’invasione, la distruzione, l’infanzia violata, e i confini mobili tra bene e male – si ripresenta in forme nuove, imprevedibili, spesso incongrue rispetto alla coscienza storica che credevamo consolidata. “La guerra, oggi, non è più un’eccezione, ma un rumore di fondo, un’eco distopica che scardina ogni illusione di progresso lineare”, ci ha detto Ardone. Kostya, il bambino protagonista, è figlio di questo tempo. Ha dieci anni, è ucraino, conosce la guerra come normalità quotidiana. “Il videogioco è la sua lingua, ma la guerra non è più solo simulazione: è reale e gli ha già portato via troppo”. Mandato dal padre in Italia con un indirizzo e una foto alla ricerca di una costola della sua famiglia, finisce per caso - o per destino - nella casa di Vita Mezzanotte, insegnante serale, madre in lutto, donna ripiegata sul proprio dolore. “Vita ha la guerra dentro, non fuori. E sarà proprio lo sguardo straniero del bambino a rimetterla in movimento”. 

 

L’autrice costruisce il romanzo attraverso tre voci che non si fondono in un’unica verità, ma si richiamano come funzioni narrative autonome, disposte lungo un asse spezzato: Kostya, Vita e Irina, la nonna scomparsa, la filosofa mancata e la domestica invisibile. Non è un legame filogenetico a unirli, ma un intreccio di responsabilità assunte, spesso con fatica. La maternità – tema ricorrente nei romanzi di Ardone (si pensi a Il treno dei bambini, divenuto l’omonimo film di Cristina Comencini) – non è mai un dato biologico, ma un atto di coscienza. “Non è un gesto volontario - spiega - è una responsabilità che si prende, o che arriva. Ognuno la vive con le proprie paure e capacità e c’è chi non la vive affatto, senza per questo valere meno”. Kostya porta, invece, con sé una forza primigenia, quasi mitica. E’ un’esperienza più che un personaggio, è lo spostamento che l’altro impone e l’altro, si sa, è faticoso. Dove si perde l’incontro, nasce il conflitto, ma dove l’incontro riesce, il mondo cambia posizione. Tanta ancora vita, sin dal titolo, è dichiarazione e auspicio insieme. C’è ancora vita dopo la perdita, dopo la fuga o dopo il trauma, ma quella vita non si impone: va scelta e accolta, integrata. E’ un’idea di speranza che non consola, ma scompiglia.

 

Come il perdono, altro tema silenzioso, ma profondo del romanzo. “Saper perdonare è difficile, soprattutto se non c’è stata giustizia – dice Ardone – ma il perdono, come insegnano esperienze estreme, penso a Mandela e al Sudafrica, può diventare un mezzo di ricostruzione, anche pubblica. Quando si perdona l’altro, si perdona sé stessi, è una forma di sopravvivenza”. Così, Tanta ancora vita racconta il presente attraverso i sedimenti del passato. Scrive al tempo indicativo, ma ascolta i fantasmi, perché ciò che viviamo oggi non è che il ritorno inquieto di ciò che avevamo rimosso. E’ la Storia che torna “a battere cassa”, in modi che non sappiamo decifrare con gli strumenti del passato. Questo romanzo apre, non insegna né redime, ma affida al lettore il compito sottile di restare disponibile all’incontro anche quando è scomodo e fa male, anche quando ci chiede di diventare altro da noi. 

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