FOTO ANSA
il figlio
Ti presenti forse ai tuoi familiari? No, ma cosa festeggiamo? La famiglia
Un uomo milanese a La Réunion viene accolto nella famiglia creola di Momon. Dopo essersi sentito inizialmente estraneo, capisce che lì non servono presentazioni: "se qualcuno ti domanda chi sei, è come se ti chiedesse di giustificare la tua presenza. Se eri lì, è perché sei della famiglia"
Ho questo maledetto senso milanese dell’orario. Così arrivo alla festa per primo, nonostante mi sia perso più volte nel buio delle viuzze sterrate di La Confiance, lungo la strada che dall’est sale verso gli altipiani del centro. E’ la prima volta che vengo invitato a casa di Momon, la matriarca della famiglia creola con cui vivo qui, a La Réunion — questa isola magica alla fine del mondo. Abito nell’est, la parte più povera e dimenticata, popolata quasi solo da creoli. Il mio villaggio si affaccia sull’oceano, dove le case in muratura si alternano a baracche di lamiera, e il vento sa di cenere e sale. Ho una stanzetta a casa di Jimmy e Dora, la figlia di Momon: una brandina troppo corta, un armadio improvvisato, una finestra senza vetri che dà su un allevamento di galli da combattimento, che paiono incapaci di riposo.
Momon la conosco bene, ormai. Ma c’è voluto tempo per meritarmi questo invito. Senza quasi accorgermene, ho attraversato i riti d’iniziazione: i tuffi sotto le cascate, le cacce notturne nella foresta, le cerimonie di purificazione… fino a questa sera.
Mi accoglie con un sorriso pieno, un abbraccio che profuma di pioggia. Torna in cucina, lasciandomi sul divano sfondato del patio a sorseggiare una birra gelata. Uno dopo l’altro arrivano gli altri, una quarantina di persone, a coprire tutte le generazioni. I bambini si mettono in fila per darmi un bacio sulla guancia. Poi tocca agli adulti. Ogni volta che provo a presentarmi ai pochi sconosciuti, qualcuno mi stringe, mi bacia distratto e passa oltre. Mi sento fuori posto: l’unico bianco, l’unico straniero, nemmeno francese. Forse chi non mi conosce mi vede come un intruso, o un’insignificante anomalia. Eppure la serata scorre lenta e felice. Le loro feste durano ore, come se il tempo non servisse più. C’è chi canta, chi balla, e chi fissa un muro scrostato o le stelle oltre le nuvole. Il legno opaco scricchiola sotto i piedi scalzi. Dalla foresta qualcuno arriva carico di foglie umide di banano — i piatti su cui mangiamo con le mani lo stufato di polpo, il riso e il rougail di Momon: mango verde, cipolle e peperoncino.
Scopro i nomi di chi non conoscevo. A un certo punto mi accorgo di non sapere nemmeno che cosa festeggiamo. Forse un compleanno, un battesimo? Lo chiedo a Jimmy. Si guarda intorno, mi dà una pacca sulla spalla e, con il suo sorriso duro, risponde semplicemente:
- La famiglia.
La sera seguente rientro tardi. Trovo Jimmy e Dora che chiacchierano nel patio con una coppia che non conosco. Prima di salire nella stanzetta, mi fermo e mi presento. Colgo un’ombra d’imbarazzo, ma non ci faccio caso e vado a farmi la doccia. Poco dopo sento bussare. E’ Dora. Ha un’espressione delusa.
- Perché ti sei presentato?
- Per educazione - rispondo, stupito. Lei mi guarda, inclina il viso, le labbra increspate. Poi insiste: - Ieri sera, da Momon, qualcuno si è presentato a te?
- No. Infatti, ho pensato di non essere il benvenuto.
Il suo disappunto si scioglie nella condiscendenza che si riserva ai bambini.
- E’ più di un anno che stai con noi e non hai ancora capito niente. Se qualcuno ti domanda chi sei, è come se ti chiedesse di giustificare la tua presenza. Se eri lì, è perché sei della famiglia. Ti presenti forse ai tuoi familiari?
- Non hai sentito Momon chiamarti il mio grande figlio bianco? In famiglia non importa come ti chiami, che lavoro fai o da dove vieni. Non devi dimostrare niente, mon frère.
Sento le lacrime salire. Ero libero, e non me n’ero accorto. Dora mi abbraccia, poi se ne va.
Federico Tavola, scrittore, autore e fisico, in libreria da oggi con “La grammatica di frontiera” (Solferino editore)