
"Valentina", la pièce sul potere creativo (e curativo) delle parole
La regista franco-vietnamita Caroline Guiela Nguyen racconta la fiaba di una madre e di una figlia divise dalle parole e unite dall’amore. A Romaeuropa, un teatro che parla la lingua universale della cura
La lingua è il cuore (e cuore non è una parola scelta a caso) della pièce “Valentina”, scritta e diretta da Caroline Guiela Nguyen, direttrice del Théâtre National di Strasburgo, che ieri ha debuttato al Teatro Argentina di Roma, nel programma della quarantesima edizione del Romaeuropa Festival.
Sarà in scena fino a domenica 19 ottobre. Lo spettacolo, in francese e romeno (sottotitolato in italiano), è una fiaba su una madre e sua figlia, Valentina, che vivono al limitare di un bosco fuori da Bucarest. Valentina gioca nella natura, la sua vita è perfetta, fino a quando la madre si ammala di una grave malattia cardiaca che le provoca aritmie e uccide un po’ alla volta il suo cuore (il cuore è l’unico organo che non si rigenera e le cui parti danneggiate diventano fibrosi, tessuto cicatriziale). Così le due si trasferiscono a Parigi per le cure.
La bambina chiede: “Come farò, che non so parlare francese?”, la madre le assicura che se la caverà. Effettivamente, con il cervello plastico dei bambini, impara la lingua molto rapidamente. La madre invece inizia il percorso sfiancante nel sistema sanitario, reso impossibile dal fatto che non parla francese, non riesce a spiegarsi, non capisce quello che la dottoressa, sempre impaziente, le dice. Nello stato di vulnerabilità e panico in cui si trova il corpo rifiuta l’apprendimento, già faticoso in età adulta. A questo si aggiunge che l’incomprensione linguistica spesso è travisata dal giudizio comune con l’ignoranza, il non saper esprimersi con il non saper pensare, e lo sguardo perso di chi non capisce il significato di alcuni suoni, come lo sguardo instupidito di chi non capisce punto. La madre è spaesata, immobilizzata dalla frustrazione e dalla vergogna. Ed è costretta a fare l’ultima cosa che vorrebbe, ovvero portarsi Valentina come interprete dal medico, esponendola a una realtà dolorosa e a delle notizie a cui non vorrebbe mai esporla. Nguyen, che per questa pièce ha lavorato con la comunità romena di Strasburgo (attori professionisti e non), racconta un episodio che ha ispirato la sua storia: un giorno la sua interprete non è potuta andare alle prove poiché stava accompagnando delle donne ucraine durante il parto. Non garantire un interprete vuol dire privare qualcuno del diritto di curarsi, è anche così che la lingua si interseca con la vita quotidiana e determina momenti anche molto intimi. Spesso in questi vuoti istituzionali del sistema sanitario, le famiglie si affidano ai figli per praticità, con tutto il dolore che provoca. Allo stesso modo Valentina diventa l’interprete della malattia di sua madre, che con il cuore malato ma soprattutto pesante la prega di tradurre senza immaginare, nell’illusione che la bambina possa non capire. Ovviamente la bambina capisce tutto, e si assume la responsabilità della salvezza di sua madre. Fino a che punto lo scoprirete in scena, fino a dove può arrivare l’amore, fino a dove può arrivare la forza del cuore. La lingua è veicolo di questa forza, strumento magico della fiaba. Quando la scena si sposta a Parigi, Valentina e sua madre non si incontrano mai nello spazio, come se vivessero in due mondi paralleli e incomunicanti, che si ritrovano solo quando la bambina diventa interprete. Allora il romeno torna la lingua dell’affetto e della complicità. Il francese resta ambivalente: per la madre è il motore che alimenta la stessa malattia. Per Valentina, invece, in un rovesciamento di ruoli, è lo strumento con cui può incidere sulla realtà. Con le parole che dice, e che spesso inventa, protegge sua madre, innanzitutto dalla vergogna. La pièce gioca molto sul rapporto tra verità e bugia, sull’invenzione della verità, su quella che già dal prologo è descritta come “l’histoire d’un miracle”. Andate a teatro per questa fiaba sul potere creativo delle parole.