
Il Figlio
In un tempo quagliato da inferno, la scommessa della letteratura legata all'arte
Ogni racconto di "Museo di sabbia" di Giovanna Di Marco è ispirato a una o più opere d’arte, dal Medioevo all’età contemporanea
In uno dei racconti della raccolta "Museo di sabbia" di Giovanna Di Marco (Del Vecchio, 262 pagine, 18 euro) una giovane palermitana, trasferitasi a Firenze dopo il matrimonio, scrive lettere angosciate a un’amica rimasta in Sicilia. Non le piace Firenze invasa da turisti che consumano le opere d’arte come “overdose obbligatoria di cultura” e non le piace il matrimonio di cui dice: “Sperare di creare quel nido, quell’unico organismo che è una famiglia, è un abbaglio”. Eppure vuole disperatamente un figlio, ma per una ragione egoistica: “perché non ho trovato la felicità”. Così quella scheggia di supposta felicità s’insinua nel suo ventre alla chetichella e fra diversi ostacoli, e certo non è un caso che il racconto sia intitolato allo Spedale degli Innocenti di Filippo Brunelleschi, nato come brefotrofio e poi destinato all’accoglienza di bambini e madri in difficoltà.
Veramente ognuno di questi racconti è ispirato a una o più opere d’arte, dal Medioevo all’età contemporanea: è la scommessa del libro -e la sua particolarità - intrecciare epoche diverse a protagonisti che si muovono contro scenari a volte lontani dal momento che stanno affrontando. Perché l’arte serve anche a questo, a mettere in relazione, a sorprendere, a favorire rivelazioni. In più l’autrice inventa storie, più di venti, che risuonano in luoghi differenti, e non sempre quelli in cui si trovano le opere descritte.
Una volta è il Seppellimento di Santa Lucia del Caravaggio, un’altra il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, un’altra ancora L’età matura, di Camille Claudel, e in questo caso è l’artista francese a prendere la parola. Così via nella costruzione ideale di un personale Museo con cui la scrittrice vuole stupire l’uomo che ama. Ma sarà un Museo di sabbia, come dice il titolo, perché niente dura, tutto si sgretola nel tempo. Ma lei, l’autrice, da vera Sheherazade, saprà di nuovo e sempre incantarlo quell’uomo con altri racconti a venire, e sconfiggere l’impressionante affresco palermitano del Trionfo della Morte…
Come già nel convincente libro di esordio La sperta e la babba di due anni fa, Di Marco ha una lingua strepitosamente ricca che non rinuncia al dialetto della sua Palermo, ma che stavolta relega in un solo racconto, La Madonna del Parto di Piero della Francesca, e pazienza a non capire tutte le parole. Se ne afferra lo stesso il senso e soprattutto la musica e il brio, tanto che sembra di precipitare nei libri dei grandi scrittori siciliani, amatissimi da questa autrice, Vincenzo Consolo e Gesualdo Bufalino forse più di altri, che anche quando non si esprimevano in dialetto ne ricreavano la sonorità recondita ed evocativa a ogni pagina.
“A Marianna ci parse che quegli ancillazzi del quadretto diventavano acidazzi e che con quelle ali dovevano uscire dal velo di plastica per mangiarisilla”, scrive Giovanna Di Marco parlando di Marianna, ricoverata in ospedale perché “doveva accattare due gemelli”. Nella stanza c’è appesa una riproduzione della celebre pittura conservata a Monterchi, in cui accanto alla Madonna, che si tocca la pancia gravida, stanno due serissimi angeli a reggere le cortine di un tendone che la protegge e la incorona. Il tutto in “un tempo quagliato da inferno” proprio come quello dei giorni che stiamo attraversando.
Giorni davvero infernali che la buona letteratura può aiutare a superare, magari complice un ventilatore e un’ideale passeggiata nel Parco della Favorita, ancora una volta a Palermo, dove “Maestà e Orgoglio, i due leoni posti sui pilastri all’ingresso” si risvegliano dopo secoli per scendere sbadigliando e stiracchiandosi preparandosi a vivere una nuova storia che ci verrà raccontata. Quale? Lo scopriremo soltanto leggendo.