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Il Figlio

Etimologia di una parola che significa: mangiare tutti insieme

Annalena Benini

Avevo voglia di rovesciare la tavola con tutta la roba sopra. Sovrastrutture borghesi

La storiella che sto per raccontare è accaduta davvero. Non che le altre storie del venerdì non siano più vere del vero, ma questa è accaduta proprio così, lo giuro. Nella mia famiglia e altri animali ora vige una nuova parola, che ha bisogno della sua etimologia: è nata una sera a cena nel  posto di mare in cui i miei figli hanno passato quasi tutta l’infanzia, e di conseguenza anche noi adulti, più giovani, spensierati, pendolari, inconsapevoli delle fortune pazzesche in cui ci trovavamo immersi: figli buoni e allegri che volevano solo imparare ad andare in bici, mangiare un gelato e stare un altro po’ in braccio. Comunque, quella sera eravamo tutti a cena nel posto in cui andavamo spesso, allora, a mangiare un primo piatto che si chiama “calamarata”, e che adesso mio figlio non mangia perché è diventato vegeteriano e io non mangio perché non mi è mai piaciuto davvero e mi ricorda che detestavo quelle tavolate di bambini urlanti, le stesse che adesso rimpiango con tutto il cuore. Il posto è rimasto identico, noi parecchio diversi. Le zanzare sono le stesse, forse un po’ più stanche. Mio figlio era in vena di polemiche e di rivoluzioni, come spesso gli accade, e sosteneva che l’abitudine dei pasti consumati insieme intorno al tavolo della cucina è, in generale, un’imposizione famigliare borghese che andrebbe abolita (un po’ come rifare il letto, che secondo lui non ha senso visto che la sera ci ridormi). 

 

Nella sua idea di libertà e di convivenza pacifica non può esistere il dovere di cenare insieme alla famiglia. Io ero decisa a mantenere la calma: infatti amore mio, se esci mica devi tornare per cenare con noi, però se siamo a casa mangiamo tutti insieme. Si cena con chi c’è, è una cosa bella. Eh no, diceva lui, è proprio questa l’imposizione: io magari sono in casa ma non ho nessuna voglia di cenare con voi, voglio mangiare in camera mia o mangiare due ore dopo, e invece ho questo vincolo ogni giorno. Cominciavo a spazientirmi e a cambiare i lineamenti del viso. Ho detto: ma  è un modo per stare insieme. Risposta: allora perché non facciamo che ognuno mangia quando e dove vuole e poi ci vediamo tutti in salotto alle dieci e mezza? Lui parlava con foga della tavola apparecchiata come sovrastruttura reazionaria. Io nervosissima ho detto: ma per me è un piacere. Apparecchiamo insieme, ognuno dice che cosa preferisce mangiare, intanto parliamo di che cosa è successo, ti spalmo il formaggio sul pane. Non è un dovere, è l’aver cura.

  
Lui, infastidito: non so che cos’è. Ma come, sei scemo? E’  insorta la sorella che fino a quel momento aveva mantenuto una posizione neutrale. Si cucina, si fa qualcosa per gli altri, magari non hai fame perché hai mangiato due scatole di noodles mezz’ora prima, ma poi ti viene. A me piace il pesto e a te no, io ci ho rinunciato per colpa tua. Ma lui non era per niente convinto. Manco la cena adesso va bene. Avevo voglia di rovesciare il tavolo con tutta la roba sopra. Mio figlio ha detto: insomma mi spiegate che cos’è questa Vercura? Verdura? Ha detto suo padre. No, Vercura, la parola che ha appena detto la mamma, che cos’è? Aver cura, Giulio, non Vercura! Avere cura del fatto che siamo una famiglia. Ah, pensavo un insieme di regole. Comunque ho ragione io. No bello, non hai ragione tu per niente, e comunque adesso mi è tornata fame. Per favore, una Vercura bella fresca, con panna.

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