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Il Figlio

Ritorno a Los Angeles, una città in preda agli elementi, fabbrica di illusioni e storie

Giulio Silvano

Il ritorno nella città degli angeli viva e ostile, dove la natura e l’illusione si confondono. Una città che respinge e affascina, specchio del desiderio e del disincanto

Acqua e fuoco. Los Angeles, la città dei sogni di triacetato di cellulosa, e della disperazione patetica da Viale del tramonto, è una città in preda agli elementi, un far west elementale. Gli incendi a Pacific Palisades, ad Altadena, nei boschetti intorno alla villa pseudoromana dei Getty, sono arrivati proprio mentre Chiara Barzini aveva appena completato il suo ultimo libro, L’ultima acqua (appena uscito per Einaudi). “Benvenuti nel pirocene”, scrive Barzini nell’introduzione. Anche il suo precedente romanzo, Terremoto, è estremamente elementale, anche nella sua anima adolescenziale – le scosse sismiche sono un altro personaggio che a volte appare quando si ambientano le storie nella Southern California, spesso senza avere effetti particolari sulla trama, come in Black Dahlia di De Palma o in Knocked up di Apatow. Lì, in Terremoto, la scossa era la famiglia che da Roma si trasferisce sulla costa del Pacifico. Qui invece il rapporto è con le falde acquifere del nostro io, e  su come possano zampillare, creando effluenti – i figli – e pozzanghere e cascate. “Un amico scrittore ha diviso il mondo in due categorie: quelli che dopo i figli fioriscono e quelli che vengono presi a calci in culo. Io facevo parte della seconda categoria”, scrive. Ma anche sull’acqua vera, quella che permette ai produttori e alle star di flexare le loro infinity pools a Bel Air, quella che fa crescere piante che poi, quando arriva la siccità, diventano combustibile perfetto.


Per Chiara Barzini Los Angeles è viva. Viva nel senso che appare come un’entità con la sua anima e il suo carattere. Il ritorno lì dove ha vissuto, per presentare il suo primo libro, le fa capire che forse LA non vuole più esserle amica. Prova in ogni modo a farsi detestare, ad allontanarla. Una città che ha un’immagine fumosa e banale per chi non la conosce, non facile da raccontare senza cadere nei cliché. Ma Barzini ci riesce, intelligentemente, partendo dalla linfa vitale di un accampamento costruito nel deserto, come una psicanalisi urbana che arriva all’infanzia di Hollywood, quando i torrenti hanno creato il lusso delle ville dell’epoca d’oro di Hollywood e i laghetti dove girare le scene dei colossal. Barzini segue l’acqua, l’elemento che per Talete era il principio di tutto, l’elemento che nella Genesi precede la creazione del cielo e della terra, e lo fa fisicamente, percorrendo l’acquedotto di Los Angeles, che a inizio ’900 William Mulholland – quello a cui dedicheranno il famoso drive lynchiano – mette su per inumidire quello che era solo un deserto, predisponendo la città “a un destino di malagestione, avidità e corruzione”. Acqua come oro. Mulholland “è riuscito a creare l’illusione più grande e potente di tutte. Ecco a tutti una città magica in cui si può far apparire tutto ciò che si desidera”. Il desiderio. Barzini torna a LA perché forse si farà un film sul suo libro. Prima però esplora il peccato originale della città degli angeli, laghi e acquedotti come fonte dell’eterna giovinezza hollywoodiana.


O.J. Simpson e Rodney King, Chinatown e Joan Didion, Cecil B. DeMille, Mike Davis, bottiglie di whiskey e sante delle rocce, un percorso che fa venire voglia di salire su una Chevy e percorrere la Route 101, ma con quell’amarezza  che si ha vedendo i vecchi attori in declino. Questo è un memoir ed esplorazione, reportage sulle dark side, sul giocare a dio con gli elementi,  biografia di una città costruita dall’uomo per diventare fabbrica di illusioni e storie, la città che ha ucciso Francis Scott Fitzgerald. “Come ha detto Joan Didion nel suo discorso ai laureati alla UC Riverside nel 1975, dobbiamo essere spericolati e buttarci nello scompiglio del mondo”, e farlo partendo dal desiderio che scompiglia tutto è un ottimo modo per cominciare. 

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