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Il Figlio

Caro papà. Il comandante della stazione. La fisarmonica e la vita di Fulvio Stefanini

Maurizio Stefanini

Eri un umile figlio di contadini divenuto sottufficiale dei carabinieri, anche tu di quella che i sociologi hanno chiamato “la generazione silenziosa”. Sei sempre stato e sarai sempre la mia bandiera, so che un giorno ci rivedremo

C’erano da talmente tanto tempo che sembrava che il mondo non potesse esistere senza di loro. Ma se ne sono andati tutti assieme. Eugenio Scalfari, Piero Angela, la Regina Elisabetta, Angela Lansbury, e anche Fulvio Stefanini, mio padre. Nato a Selci Sabino, in provincia di Rieti, l’11 gennaio 1930. Morto a Roma il 10 ottobre 2022.

  

Non sei stato famoso come gli altri che ho citato, papà. Eri un umile figlio di contadini divenuto sottufficiale dei carabinieri, anche se un figlio giornalista con qualche contatto ti è valso condoglianze di vip che da ragazzo ti avrebbero sorpreso. Ma eri anche tu di quella che i sociologi hanno chiamato “la generazione silenziosa”. I ragazzi nati tra la grande crisi e la guerra che poi si sono messi a sgomberare le macerie e, appunto senza brontolare, con la loro volontà e fatica hanno costruito  un mondo prospero e libero come non si era mai visto. A sei anni hai perso la tua sorellina, uccisa da una febbre. A otto ti hanno portato ad applaudire il treno di Hitler in visita a Roma. A 14 anni solo i tuoi giovani riflessi ti hanno salvato da una bomba di cannone tedesca. Ne raccogliesti una scheggia, che per quasi settant’anni conservasti gelosamente come portafortuna e testimonianza. Poi l’hai regalata al mio secondogenito, una sera d’estate in cui sorprendesti lui e il fratello alle tre di notte, e invece di rimproverarli offristi loro una birra. La  foto di quella scheggia l’ha messa lui ora su Facebook, assieme all’altra in cui a un anno gli insegnavi a camminare, e al ricordo delle cose che raccontavi.

 

Ma, appunto, tu sei di quelli che ha fatto camminare tutto un Paese. Adolescente, andavi a vendere la frutta a Roma; imparasti a intrecciare canestri di vimini; ti impiegasti in un frantoio. A diciannove anni, appena arruolato, ti prendesti una polmonite per stare di servizio a aspettare Eisenhower a Ciampino. Da allora, non ti sei mai più tolto la canottiera della salute di lana. In realtà, non eri del tutto convinto di dover portare la divisa per tutta la vita. Così, ne hai provate tante: il diploma di dattilografo; la Scuola Radio Elettra; la fisarmonica. Nelle caserme dove andavi innestavi alberi, durante gli interrogatori stupivi la gente per la tua capacità di scrivere a macchina senza guardare la tastiera ma i loro occhi, e i tuoi canestri di vimini io li uso ancora. Le tue riparazioni elettriche erano però un po’ pasticciate, e alla fisarmonica dovesti rinunciare perché facevi troppo chiasso in camerata. Però l’hai conservata: conservavi tutto. Così me la sono imparata io. Alla fine, hai fatto il corso da sottufficiale. “Mio padre, comandante della stazione e quindi la più alta autorità militare del comune” scrissi in un tema di quarta elementare che ti fece sbellicare dalle risate.

 

Quando la mamma era incinta di me, ti mandarono in Alto Adige. Ti diedero cinque carabinieri, cinque guardie di finanza, cinque alpini, quindici chilometri di ferrovia e la consegna: “Se i terroristi fanno qualcosa ai binari, finisci sotto processo”. Poco prima ti avevano già mandato a affrontare la piazza, ai tempi di Tambroni; ti ci mandarono di nuovo per i moti dell’Aquila; in Sicilia schivasti per poco una pallottola. Lavorando poi per la  Presidenza del Consiglio, la tua vita si fece per noi più misteriosa. Ma io e mia sorella sapevamo che c’era da affrontare il terrorismo. Con la pensione hai potuto tornare a fare il contadino, e imparare a essere nonno. Il mio primogenito da piccolo ti chiamava papà, come me. Purtroppo, quello che la tua generazione aveva costruito, chi è venuto dopo lo ha abbondantemente sfasciato, e temo che alla fine ti fosse venuto il dubbio di essere vissuto invano. No, così non è stato. Quel tuo figlio un po’ matto che fa un lavoro così strano, quando ha il dubbio di cosa sia giusto fare ripensa sempre a suo papà in divisa che era il simbolo della legge. Papà, sei sempre stato e sarai sempre la mia bandiera. E so che un giorno ci rivedremo.

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