Elaborazione grafica di Francesco Stati 

Il Figlio

Il nostro meglio

Fuani Marino

Non sa piantare un chiodo, non sa cambiare una lampadina. È mio nonno

Ci sono i figli, e poi ci sono i nipoti. Sembra anzi più facile godere dei secondi, anziché dei primi, proprio perché meno coinvolti nell’educazione, nell’accudimento, meno fagocitati dal senso di responsabilità. Esistono poi anime affini, al di là dei legami di sangue, e al centro dell’ultimo romanzo di Alessio Forgione c’è il rapporto fra una nonna e suo nipote. Quest’ultimo (Amoresano, anche detto Chiccù, già protagonista dell’esordio Napoli non amour pubblicato da NNE nel 2018) è un bambino che la madre lascia ai nonni quando è al lavoro, poi diventa un ragazzo alle prese con gli esami all’università e le vicende amorose. Tutt’intorno un affresco famigliare, le zie adorate e il cognato vissuto come elemento di disturbo, il nonno che incarna un tipico esempio d’uomo sempre estraneo a quanto accade in casa - “quest’uomo che non sa nuotare né cambiare una lampadina e che ogni chiodo che pianta nel muro produce una crepa (…), quest’uomo che non ha parole per nessuno ed è costretto a venire per sempre frainteso” - i siparietti fra i coniugi che tentano di rischiarare anche le giornate più difficili. Il nostro meglio (La Nave di Teseo) sembra già la sceneggiatura di un film e, sin dal sommario, i capitoli suggeriscono un conto alla rovescia che lascia spazio all’immaginazione e offre al lettore l’opportunità di scrivere un finale proprio.

 

Il racconto si snoda a Napoli, ancora una volta, fra Bagnoli e Soccavo, quartieri anonimi abitati in genere da persone semplici, famiglie e lavoratori alle prese con la loro quotidiana lotta, le piccole gioie e i dolori in agguato dietro l’angolo. Ed è appunto uno di questi che bussa alla porta e col quale bisogna fare i conti. “Ho pensato che quando si prova un dolore forte, forte come un terremoto che rade al suolo un’intera città o una nazione, dopo si diventa delle persone eleganti, necessariamente, senza possibilità di scegliere d’essere quel che si vuole, perché è il dolore che sceglie per loro e che sembianze dargli e come dipingerle agli occhi del mondo”. Senza troppi orpelli, con una semplicità che rimanda alla lezione di Calvino, intesa quindi non come “il risultato di una difficoltà evitata, ma il frutto di una difficoltà risolta”, Forgione ci racconta la parte migliore, ovvero la più autentica. In filigrana ci sono Il mare non bagna Napoli, L’isola di Arturo e riferimenti alle figure di Benedetto Croce, Giuseppe Moscati. Ma anche la Pignasecca, con la scena di una madre suicida, e una passeggiata notturna a Posillipo, fino a Palazzo Donn’Anna, poi settembre che “è come una struttura invisibile, di vetro spesso, che ci separa dal cielo e ci contiene e che solo a volte, quando s’insinua attraverso i buchi da cui entra anche l’aria, lascia filtrare la pioggia, e nonna continua a sedere sul divano in soggiorno o su di una sedia che le hanno comprato (…).

 

E una volta comoda, dopo che si è sistemata, incomincia davvero a osservare attentamente le cose. Guarda oltre i nostri vetri la cupola invisibile che ci sovrasta, i tetti dei palazzi che stanno intorno al nostro, o il soffitto, e se ne resta in silenzio, aprendo bocca solo quando le si chiede qualcosa e mai di sua spontanea volontà. Perché, a differenza nostra, nonna non ha più parole, ma solo risposte, ed io siedo in poltrona, a un metro di distanza da lei, e mi sembra che l’abbia intuito che sta morendo”. La nonna, nel suo scomparire, è raccontata dalla voce del bambino e del ragazzo, con balzi nel tempo: “Le guardo le mani, che sono ancora grandi, appoggiate sopra la copertina che ha sulle gambe, forse incosciente del caldo, e mi dico che di certo ora non si domanda più se guarirà. La osservo per intero e ho paura che il dolore finirà per prevalere su quelli che siamo stati e cancellerà i momenti in cui eravamo felici, e di noi non rimarrà altro che questo abbozzo”.

 

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