Lei che non c'è

Gaia Manzini

L’assenza della madre è come la nebbia della Pianura padana, come il silenzio di ogni sera

Pietro è solo un bambino, guarda la madre e il cucciolo al centro della cascina. Ettore, suo padre, lo ha portato lì perché a breve quel cucciolo di cane sarà loro: preparano una trappola, una scatola con della carne e una corda per chiuderlo dentro, per catturarlo. Si siedono, aspettano; il tempo passa lento mentre il sole proietta lunghe ombre dietro le loro spalle. Poi il cucciolo arriva, annusa la carne: è in trappola. Pietro e Ettore corrono via con la scatola di legno sotto braccio. La madre ulula legata al ceppo al centro del cortile, tira la catena fin quasi a strozzarsi, risponde ai guaiti del suo cucciolo perduto. Leggiamo questa scena nel Nome della madre di Roberto Camurri (appena uscito per NN) e non facciamo che pensare alla mamma di Pietro, alla donna al centro di questo romanzo: la madre che non c’è, che è scomparsa nelle prime pagine del libro, che ha abbandonato il marito e il figlio senza spiegazioni, senza più tornare indietro. Che ha spezzato una catena e ha scelto di scappare. “Ogni tanto lo prendeva il pensiero che non l’aveva mai sentita ridere davvero, una cosa che lo metteva a disagio, che gli lasciava addosso un’insicurezza mai provata”. Di lei rimane il ricordo di quel giorno: la donna in camicia da notte sulla soglia con l’aria svogliata e loro due, padre e figlio, che partono per la montagna: al ritorno, non la ritroveranno. Non la vedranno mai più. Di lei sono rimasti nell’armadio i vestiti che non metteva mai: Ettore li toglie dalle grucce come se fossero vivi, li piega sul letto dividendoli con scrupolo, ma poi li ripone in uno scatolone, come se fosse possibile dimenticarsene. C’è anche la camicia da notte, quella che Ettore brucerà in cortile. Di lei resta solo una foto: l’abito a fiori, il bambino in spalla; gli occhi nocciola di entrambi: la stessa sfumatura.

 

“Un silenzio che li accarezza alla sera, quando sparecchiano, quando Pietro asciuga i piatti che suo padre lava, quando sono in bagno a lavarsi i denti, insieme, quando si infilano il pigiama, insieme, quando nessuno dei due dice buonanotte… Un silenzio che si trascina, stanco pure lui, che stanca suo padre, i suoi lineamenti nascosti sotto i capelli, sotto la barba, affilati e taglienti, gli occhi infossati, crepati di rosso”.

 

Questo libro si impasta con l’assenza, è fatto di silenzi, di pause, di deglutizioni del tempo. Ogni capitolo segna un’accelerazione in avanti, dall’infanzia di Pietro fino all’età adulta: ellissi che sono abissi. Ogni gesto e ogni battuta sono costruiti partendo da una laconicità consustanziale; ogni gesto, ogni frase prende vita come se ne mancasse sempre un pezzo e come se quel pezzo mancante risuonasse, riempisse la pagina di echi. Questo dentro la pianura Padana, a Fabbrico dov’è ambientato il libro (e dove era ambientato anche A misura d’uomo, il romanzo precedente di Camurri), è possibile più che in ogni altro luogo. Con i campi che si stendono gentili davanti agli occhi e sembrano una coperta; con la nebbia che da grigia si fa dorata, che sfuma i contorni e rende tutto inconsistente, impalpabile, sul punto di sprofondare.

 

Dentro il tempo lento della pianura, l’assenza della madre è la misura di tutto. La misura dell’insicurezza di Pietro, quella tendenza a scegliere solo cose che lo fanno stare scomodo (i maglioni col collo troppo stretto, le giacche troppo corte, i pantaloni troppo larghi, le donne difficili); la misura del suo rapporto complicato con Miriam e con la paternità, la possibilità di avere una famiglia come lui non ha avuto. L’assenza della madre è come la nebbia che preme sui corpi, lungo i contorni degli alberi, le pareti delle cascine. Eppure siamo lì e non riusciamo a biasimare quella donna, aspettiamo che ritorni e giustifichiamo la sua fuga. Chi se ne va sogna di rinascere da un’altra parte. Chi se ne va lascia la sua presenza in forma di silenzio, un vuoto magnetico che non si può dire ma che attira tutto a sé. Fino all’ultima pagina non conosciamo il nome di questa donna – e sarà un nome bellissimo, palindromo, che si legge da destra a sinistra, che non consente di perdersi, e forse la fuga è stato il ribellarsi a un destino. Ma anche se questa madre non si può dire, ecco che la madre rinasce nel libro incarnandosi di continuo in nuove forme. Nella cagna che piange il suo cucciolo, nell’orsa della gita in montagna, nel fagiano che vola terrorizzato sui campi, nel gatto con la schiena spezzata in una notte di fantasmi. Ma solo quel fantasma può salvare Pietro: l’importante è registrarne la presenza. Sentire quella donna con lui anche se non c’è, impalpabile proprio come la nebbia che arriva dappertutto, fuori e dentro ogni cosa.

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