Un'immagine del film del 2017 Il Viaggio delle Ragazze

La grande fuga

Valentina Furlanetto

Un weekend all’anno con le ragazze è il mio atto politico. Anche se dovesse andare tutto male

Parto per il weekend con le ragazze, ho annunciato. Quali ragazze? ha chiesto mia figlia. Le mie amiche del liceo, ho risposto. Mica siete ragazze, ha detto mia figlia. Lei è spietata con disinvoltura, ma soprattutto non sa ancora che il tempo esterno non coincide quasi mai con il tempo interno di ognuno e non sa che per essere ragazze basta condividere lo stesso disinteresse per il cambio gomme invernali e lo stesso interesse per un rossetto.

Tutti gli anni noi “ragazze” partiamo, consapevoli che ci saranno morti e feriti, che i bambini verranno lasciati almeno una volta in baita da soli dal padre, che le carte di caramelle si riprodurranno per talea sul divano, che i compiti verranno rimandati, che non ci saranno limiti alle ore di playstation, né all’uso del cellulare o della televisione, che le amiche di famiglia riceveranno a un certo punto un whatsapp dai padri esausti che tenteranno di appioppare loro i figli (“So che andate sabato al parco divertimenti. Portate anche Andrea, ti risulta?”, a cui risponderanno, cortesi ma decise, “non mi risulta”). Ovviamente non faccio esempi a caso.

 

 

 

Partiamo e per due giorni ridiamo molto, moltissimo. Ci infiliamo nei musei e nei camerini dei negozi con il medesimo entusiasmo, senza nessuno che sbuffa, che aspetta fuori impaziente, che ha fame, che ha sete, che deve fare la cacca. Per due giorni non abbiamo più ruoli, né responsabilità. Al primo bar ordiniamo delle birre e rovesciamo sul tavolo il contenuto dello zaino: rotolano alla rinfusa rimpianti, ferite non rimarginate, desideri, progetti, segreti, dolori, paure, figli, sesso, lavoro e poi l’amore, soprattutto l’amore. Ordiniamo altre birre e le questioni vengono analizzate, scomposte, soppesate, mai giudicate, tutto emerge, si mescola, quasi mai si ricompone. E improvvisamente siamo sollevate. Temo sia per la birra.

 

La prima volta che sono partita ho mentito. Non ho avuto il coraggio di dire ai miei figli che non era una trasferta di lavoro, ma una vacanza. Perché mi sentivo in colpa. Una sensazione che era solo nella mia testa in realtà. Mio marito lo sapeva che andavo in viaggio con le amiche e non faceva una piega, ma ai piccoli chissà perché ho detto che partivo per lavoro. Poi, quando sono tornata, ho confessato. “E cosa cambia?” ha detto mia figlia, che è disinvolta nell’essere spietata come nell’essere femminista.

 

Quella è stata la prima fuga, poi è stato più facile, ora facilissimo. Di solito io parto lasciando istruzioni precise e dettagliate sui pasti, pranzi sani e biologici, che so bene che loro disattenderanno mangiando per tre giorni di seguito crocchette di pollo fritte e patatine. So che accumuleranno disordine, ore passate alla playstation e compiti da fare. Poiché la vigilanza è allentata sono tutti entusiasti dei miei weekend con le ragazze e mia figlia non chiede neppure più chi siano queste ragazze.

 

Questo fine settimana all’anno da sola fa bene un po’ a tutti, ma soprattutto è un atto politico. Esercitiamo il nostro diritto alla boccata d’aria, un diritto che mia nonna avrebbe trovato disdicevole e mia madre approva razionalmente, ma in realtà non avrebbe mai osato concedersi. Un diritto che gli uomini esercitano senza pensieri da millenni e quindi sono più bravi a rivendicare. Lo facciamo quindi per noi, per ritrovarci. Ma anche per nostre le madri, le nonne e le figlie affinché sappiano che il ruolo materno non le soffocherà, e per i nostri figli maschi perché trovino normale che le loro future compagne abbiano degli spazi loro. Infine lo facciamo per i nostri compagni e mariti, in questo caso semplicemente per dare loro un attimo di tregua.

 

In ogni caso quest’anno il nostro fine settimana è iniziato male. Ci hanno derubato subito. Dopo l’iniziale smarrimento siamo andate al commissariato per la denuncia. E mentre una di noi coinvolgeva il poliziotto nel nostro dolore (“Donde podamos disfrutar la mejor paella in Barcellona?”) la derubata scriveva cosa era contenuto nello zaino. Noi assistevamo e commentavamo.

“Spolverino”.

Hai scritto spolverino? Ma non si dice più spolverino. Pensa il poliziotto spagnolo che legge spolverino, consulta il vocabolario e crede sia una cosa per spolverare. Segue dibattito sull’utilizzo dello spolverino negli anni Ottanta.

“Cellulare”.

Pazienza, lo ricompri.

“Sì, però mi spiace. Dentro c’era tutto: i social, le foto, i messaggi”.

Non hai le password? Non hai fatto il backup? No, certo. Nessuno sguardo di riprovazione. Nessuno che scuote la testa. Annuiamo comprensive e ci auguriamo che ci mettano subito a tutte un microchip sottopelle.

“Giubbino di jeans vecchio, ma mi stava benissimo”.

Caspita, peccato.

“Documenti”.

Vabbè, si rifanno.

“Bancomat e carte di credito”.

Le blocchi.

“Rossetto nuovo”.

Marca?

“Chanel”.

Eh no, cazzo.

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