La premiazione del concorso Lingua Madre lo scorso anno a Torino (foto Carlo Cretella)

Lingua madre

Valentina Furlanetto

Andreea, Eniola, Wefa e le altre. La petulanza che ho ereditato insieme all’amore per il mondo

Non bere a canna”. Da dove viene questa voce petulante che stento a riconoscere? E’ la voce di mia madre, ma esce dalla mia bocca. Me lo sentivo ripetere fino allo sfinimento. Ora lo ripeto io. Parlo come mia madre, la lingua di mia madre, il tono di mia madre, la petulanza inarrivabile di mia madre. Raggiunta, superata talvolta. Lingua madre è la lingua dell’infanzia, della consolazione, dell’affetto, ma anche dei rimproveri, delle raccomandazioni, del senso di colpa instillato sotto pelle, quello che quando sono a letto a mezzanotte mi dice nemmeno oggi hai fatto il backup al telefono. Ciò che ci lega ai genitori e al paese di origine. Lingua Madre è anche un concorso letterario per donne straniere in Italia. La premiazione avverrà il 13 maggio al Salone del Libro di Torino. Importa poco chi ha vinto; poco importano anche le qualità letterarie delle vincitrici; importano molto le loro storie: le donne sono il motore e la capacità di esprimersi nella lingua è la leva del cambiamento.

   

La lingua madre di Eniola, nigeriana arrivata pochi anni fa in Italia, è una lingua di dolore, di continue disillusioni e di violenza. Eniola si è affidata a varie persone che l’hanno sempre tradita: la madre l’ha abbandonata, il padre la parcheggiava presso altri, il datore di lavoro prima l’ha aiutata e dopo è arrivato ad abusarne, infine il marito, inizialmente buono, poi violento. Tradimenti e disillusioni che portano Eniola a tradire a sua volta, ad abbandonare il figlio e a scappare dalla Nigeria per arrivare in Italia dove finalmente incontra due persone che la aiutano davvero. Sono due insegnanti, Maddalena e Maria Grazia, che le insegnano nell’ordine: a fidarsi, a parlare l’italiano e a mettere sulla carta il suo dolore.

 

La lingua madre di Andreea, mediatrice culturale rumena, profuma di castagne e fieno. Andreea usa il cibo per parlare della nostalgia, del suo paese e anche di tutti quegli anni lontana da sua madre, venuta in Italia da sola per fare la badante lasciando i figli in Romania, come molte donne dell’est. Non è stata contagiata dalla “Sindrome Italia”, la forma di depressione che colpisce molte di queste badanti che oggi vengono curate nella clinica di Iasi, in Romania, ma ne è stata sfiorata. “C’è andata vicina – dice Andreea – Mi ricordo le sue lettere. C’erano famiglie che le davano gli avanzi da mangiare. Soffriva”.

 

La lingua madre di Wefa è un misto di veneto e arabo, l’idioma che parlano oggi i suoi genitori. Wefa, nata in Marocco e cresciuta a Schio, è una studentessa universitaria e si sente “spezzata in due”. Dentro la sua storia c’è tutta la sofferenza dell’immigrazione: un giovane uomo, suo padre, che sogna la “bella Italia” e che, arrivato qui, si ritrova a vendere tappeti, ad essere emarginato e a soffrire; una giovane donna incinta, sua madre, che lo raggiunge fiduciosa e si ritrova invece, triste e sola, a scrivere lettere a casa infarcite di bugie in cui si descrive felice e appagata. Con una bimba in fasce, si ritrova a maledire quell’uomo, a insultarlo per averla trascinata in quel rovinoso sogno. Lui per la frustrazione inizia a bere. E tutto precipita. Fino a che arriva Margherita, una vicina di casa. Margherita dà loro una mano, tiene i bambini, aiuta la giovane madre a imparare l’italiano, a trovare un lavoro, a farsi la patente. Un po’ alla volta anche quel giovane padre trova un impiego fisso, recupera il suo orgoglio. Grazie a Margherita questa famiglia si rimette in piedi.

 

“E’ stato un grande cambiamento – dice Wefa – per gente che veniva da El Borouj”. La parola mi procura uno spasmo allo stomaco, come quando senti il nome di un amico che non vedi da anni. Perché io ci sono stata a El Borouj. Ed è piuttosto assurdo perché El Borouj è tipo Schio o Cinisello Balsamo, un paese piccolo e sconosciuto. Ci sono stata quando ero una ragazzina perché mia mamma è stata una specie di Margherita: aveva preso a cuore un pover’uomo che passava ogni tanto a vendere tappeti e le mostrava le foto della sua famiglia in Marocco. E mia mamma gli offriva il pranzo, gli comprava un tappeto e qualche volta gli dava credo anche dei soldi. E dopo anni quest’uomo, per ringraziarla, ci ha invitato a conoscere sua moglie e i figli e abbiamo fatto questo viaggio assurdo e bellissimo in Marocco, io mia mamma e mio fratello, un viaggio che non dimenticherò mai. Mia mamma aveva più o meno la mia età di adesso, ma in quella vacanza aveva il sorriso di una ragazza e una enorme curiosità per il mondo. La voce che usciva dalla sua bocca in quel viaggio è la stessa che esce dalla mia, ma solo certe volte, tipo davanti al mare o la mattina di Natale. E mi chiedo se anche mia madre, come me, non sia stata insofferente alla sua voce di tutti i giorni, la lingua della madre, e se pure lei, come me – mentre ci diceva di non farlo – di nascosto non bevesse sempre a canna.

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