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Figlia di una foto

Valentina Farinaccio

Hai visto quanto era bello tuo padre? Per la prima volta, a 37 anni, guardo in un video mio padre vivere tantissimo

Mi sono seduta, questo ho fatto. Il tempo di aprire il video, di lasciarlo andare per due secondi, ed eccomi: ancorata alla panca di ferro, in quella mastodontica fiera del libro. Il telefono, stretto in mano. Il cuore, impazzito dentro. Ho pensato che c’era Sepúlveda, lì a due passi da me, a firmare gabbianelle e gatti a chiunque. Se fossi svenuta, sarebbe corso pure lui, chissà, a vedere chi, a capire perché.

   

Perché mia madre mi ha inviato un video, Luis, questo è successo quel giorno, se vuoi sapere. E io ero a Milano, lei a Campobasso, ed è forse per via di quella spudorata distanza che deve aver pensato, mia madre, di mandarmelo su WhatsApp. Come ci si manda un saluto, un cuore, una faccina gialla senza naso, la lista delle cose da comprare, l’appuntamento per il giorno dopo. Così, proprio così, mia madre mi ha mandato il video, quella mattina: di mio padre, un anno prima che morisse.

   

Mi sono seduta, questo ho fatto. A guardarlo vivo, mio padre, per la prima volta nella mia vita. Ultimamente non faccio altro che raccontarlo, questo vuoto: perché ho scritto un romanzo che parla di assenza, che dice della sensazione crudele di quando non sai da dove vieni, per metà.

  

E presento il romanzo, e stringo mani, e firmo copie, e tutti, tutti mi fanno sempre la stessa domanda: quanto c’è di autobiografico? C’è un buco, di autobiografico, questo c’è. C’è che mio padre Mario aveva i capelli rossi, un corpo alto e snello, e c’è che è morto troppo presto: 28 anni lui, 23 mia madre, un anno appena io. Perché quando uno muore, muoiono un poco anche quelli che gli dormono accanto. E siamo morte pure noi, allora: io, fatta di latte, mia madre, ferocemente giovane, incredibilmente bella.

    

Il messaggio successivo al video dice: “Hai visto quanto era bello, papà?”. E io riesco solo a dirle che è pazza, cazzo, a mandarmi mio padre vivo così, su WhatsApp, senza un preavviso di sei mesi, senza un pavimento di gomma piuma a portata di mano su cui crollare senza ferirmi. Perché mia madre non si rende conto, e me ne accorgo quando mi chiama per scusarsi, che ora sì, mio padre è morto davvero.

   

Mi dice hai ragione, dovevo prepararti. Le dico non preoccuparti, è stato comunque bello vederlo. Eppure io solo a questo penso: che ora sì, mio padre è morto davvero.

  

Perché per 37 anni sono stata la figlia di una foto: di lui che corre (era un atleta), di lui che infila la fede al dito di una biondina che mi assomiglia tanto, di lui tutto serio, e con gli occhiali a goccia, in quella foto fatta una mattina qualunque, senza pensare che sarebbe poi finita accanto ai fiori, sulla sua lapide. Figlia di una foto, per 37 anni. E se la morte trasforma un corpo in movimento in un corpo fermo e zitto, almeno da questo io mi ero salvata: mio padre non era morto, per me, perché, per me, mai era stato vivo.

   

Una mattina, però, a Milano, mentre Sepúlveda, e la gabbianella, e il gatto, e una scrittrice amica che voglio abbracciare forte, e la notifica di WhatsApp, e mia madre che mi ha appena inviato un video, e la panca di ferro, e il dolore, e il terrore… Una mattina, a Milano, io vedo mio padre Mario per la prima volta. E’ vestito bene. Mia madre gli cammina accanto tutta fiera. Io sto insaccata in una coperta bianca e ricamata adatta all’occasione. I miei nonni sono giovani, così tanto da sembrarmi degli sconosciuti, due a caso che si sono imbucati in un filmino di famiglia. Immagino che dopo ce ne andremo a pranzo, a festeggiare il fatto che sono venuta al mondo e che ora anche Gesù Cristo ne è a conoscenza. Mio padre si muove. Mio padre si muove. Mio padre si muove. Lo fa con un’eleganza che vorrei fosse mia. Saluta tutti con la mano, e questo sì, questo anche io lo faccio sempre. Mia madre mi tiene in braccio, mi culla, si capisce che per ora non deve preoccuparsi d’altro: non sa che presto, di tutta quella gioia pulita pulita, resteranno cumuli di macerie che dovrà scostare dalla mia vita, per non farmi respirare la polvere, per non farmi sentire il rumore. Ma è presto, ora. In quel filmino muto, mio padre c’è ancora, eccolo là: in chiesa, allegro, con una candela in mano. Dopo qualche mese si ammalerà, e morirà in fretta, affidandomi a una foto. Ferma e zitta.

   

A cosa serve scrivere libri? Per me, a questo: che un vecchio amico di famiglia si è ritrovato a leggere, nel mio romanzo, di quel buco; che ha cercato un filmino che ricordava di avere e che una mattina di aprile lo ha inviato a mia madre, che lo ha inviato a me. C’è un frammento che non smetto di guardare, da allora. E lo consumo, come si fa con le maniche di una maglia, a forza di tenersela addosso: c’è mio padre che si abbassa su di me, mentre mia madre mi dondola piano, cantandomi qualcosa con le labbra che chissà cos’è. Mi sfiora la guancia con due dita, solo questo fa mio padre, ma io sono quella bambina nata da poco, all’improvviso. E lo vedo, finalmente, vivere tantissimo. Per una sola volta, ma da molto vicino.

  

*Il suo romanzo d’esordio è “La strada del ritorno è sempre più corta” (Mondadori)

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