Éva Heyman

Il diario di Eva, Anna Frank d'Ungheria

Nadia Terranova

Éva Heyman aveva le trecce lunghe, i genitori separati e l’ambizione di divorare il mondo

"Mio piccolo Diario, avevo solo quattro anni quando hanno divorziato, ma ricordo la loro tristezza. Non litigavano, o perlomeno io non li avevo mai sentiti litigare. Una volta Ági mi ha anche detto che non litigavano perché erano indifferenti l’uno verso l’altra, e di solito litigano quelli che si vogliono bene. Io non so proprio che bisogno ci sia di litigare. Non bisticcerò mai con nessuno, anche se a volte non mi dispiacerebbe rimproverare Pista Vadas, perché non vuole mai parlare con me”.


 

Éva Heyman vive in Ungheria, legge tantissimo, il giorno del suo tredicesimo compleanno ha ricevuto quattordici libri, e poi arance, cioccolata, un cuore di marzapane, il suo primo paio di scarpe col tacco, tre pigiami, dodici fazzoletti colorati, una collanina d’oro. È il tredici febbraio 1944 e Eva quel giorno inizia a scrivere. Non può saperlo, ma due anni prima, il dodici giugno 1942, in un altro luogo d’Europa un’altra ragazzina compiva tredici anni, riceveva in dono un diario e lo inaugurava: si chiamava Anna Frank. Nel 1944, mentre Éva ancora attraversa le strade della sua città nonostante le leggi razziste e la paura dell’incombente deportazione, Anna vive già da tempo nascosta in un alloggio segreto. Come Anna, Éva vede l’orrore quotidiano degli eventi, ne sente il fiato addosso, e anziché negarlo o subirlo si affida all’impresa impossibile di non rimanerne schiacciata, attraversa la Storia porgendole senza difese le armi in suo possesso: amore, speranza, intelligenza e talento.

Discute, litiga, gioisce, soffre come soffrono le adolescenti in sconfinato conflitto e doloroso amore con una madre affascinante e giovane, che è legata alla figlia ma l’ha lasciata coi nonni per seguire il nuovo marito, Béla Zsolt. Ági, cioè Ágnes, è una giornalista e Béla uno scrittore, ma, come i lettori scopriranno solo dopo la guerra, quando nel 1947 verrà pubblicato il diario, il vero genio della famiglia era la bambina. Nelle pagine fitte appuntate nei tre mesi che precedono la deportazione rivela un’abilità di analisi e un’ironia che l’avrebbero fatta brillare più forte e più a lungo dei genitori, se solo le fosse stato permesso. Oggi, a distanza di settant’anni, di Éva e Anna pensiamo: sarebbero state grandi scrittrici. Non sapremo mai se invece avrebbero scelto di diventare altro, ballerine, impiegate, insegnanti, scienziate, preferendo lasciarsi alle spalle gli anni in cui la guerra e l’odio le avevano costrette a un contatto con la scrittura ancora più intenso e famelico di quello già insito nell’adolescenza. Qualcuno ha tolto a loro la possibilità di scegliere se coltivare o sprecare il proprio talento, e a noi quella di amarne o criticarne le opere. Nel caso di Éva, quel qualcuno ha un nome: Josef Mengele. “Ma guarda, hai pure la rogna, brutto rospo. Sali subito sul camion!”, dice il dottore spingendo la bambina con le gambe ricoperte di croste, perché nel Lager C di Auschwitz dove si trova dal sei giugno ha preso la scabbia. E’ il diciassette ottobre 1944, e nessuno dei testimoni può salvarla dalla selezione per il crematorio; in quello stesso momento Anna Frank si trova a Bergen-Belsen, dove morirà qualche mese dopo. Finisce la guerra, e quelle figlie non ci sono più. Nel 1947, Otto Frank in Olanda e Ágnes Zsolt in Ungheria ne pubblicano i diari.

Béla Zsolt, il patrigno scrittore, nel libro autobiografico “Le nove valigie” così descrive Éva: “La ragazzina con quel meraviglioso visino da mela, con la sua avida curiosità, l’ambizione, la vanità, gli occhi luminosi che sprizzavano energia”. E’ la stessa ragazza che il dottore nazista ha chiamato rospo, la stessa che il 14 marzo, quando ancora andava a scuola, scriveva con orgoglio, rispetto alla sua migliore amica: “Ma io piaccio di più ai ragazzi”. Il sei febbraio 1949 Béla Zsolt muore; due anni dopo Ágnes si suicida. Otto Frank vive fino al 1980, data dopo la quale il diario di Anna viene ripubblicato nella versione integrale che lui non voleva fosse divulgata. La vicenda di Anna viene tradotta in tutto il mondo, quella di Éva arriva in questi giorni in Italia (“Io voglio vivere. Il diario di Éva Heyman”, edizioni Giuntina) nella traduzione di Andrea Rényi, autrice anche di una bellissima postfazione in cui, oltre alla storia personale della ragazza, affronta il tema del rimosso, nella percezione ungherese, dei quasi cinquecentomila ebrei morti durante il nazismo. Un terzo delle vittime di Auschwitz veniva dall’Ungheria. Tra loro una ragazza di tredici anni con le trecce lunghe e il sorriso aperto, che ha camminato da sola al centro della Storia.

Di più su questi argomenti: