Un giorno, figlia mia, questi venti metri da sola con lo zaino in spalla ti saranno utili

Matteo Righetto

I genitori, la scuola e la crisi culturale

Sono almeno due le volte in cui ogni mattina io vado a scuola. La prima è per accompagnarci mia figlia maggiore, che fa la seconda elementare. Ci salutiamo affettuosamente e poi io la lascio andare, osservandola mentre compie – da sola e con il suo zaino sulle spalle – gli ultimi metri che la separano dall’ingresso. Le prime volte si voltava dopo pochi passi e mi guardava come per dire: “E tu, non vieni con me?”. Poi sempre meno, ora non si volta nemmeno più e si fionda dentro scuola. Tutt’intorno: decine e decine di madri e padri che trascinano con premura i trolley dei loro figli, portandoglieli fino all’ultimo centimetro possibile, laddove i bidelli sono quasi costretti a litigare per fermarli altrimenti chissà dove si spingerebbero, tutti quei genitori; forse porterebbero volentieri i trolley direttamente in classe, fin sopra il banco, per non gravare sulla spina dorsale dei propri figli. Mi sbaglierò, ma credo che un giorno quello zaino sulle spalle di mia figlia e quei venti metri percorsi da sola potranno, non dico fare la differenza, ma almeno tornarle utili in qualche modo.

 

A tale proposito nutro alcune piccole, umili convinzioni basate su un’esperienza particolare, che ha direttamente a che fare con la seconda volta in cui vado a scuola ogni mattina e cioè quando, lasciata mia figlia, torno alla macchina e mi reco nel liceo dove insegno. Un liceo artistico prestigioso, un’ottima scuola, piena di bei ragazzi e ragazze i quali, al netto di tutte le pippe mentali che si sentono dire e si leggono sui ggiovani, sono grossomodo gli stessi che eravamo noi, con le stesse esigenze, le stesse emozioni, le stesse paure, gli stessi sogni. Più o meno. Ma con la pachidermica differenza che per tutta la loro infanzia questi ragazzi hanno guardato i propri genitori trascinare il loro trolley fino all’ultimo centimetro possibile davanti all’ingresso della loro scuola primaria. Io questa differenza la vedo bene, la vivo e la tocco con mano in classe, ogni giorno.

 

E purtroppo tale differenza ha a che fare con la crisi culturale che stiamo vivendo tutti. Insegno Letteratura a ragazzi che quando va bene sono viziati all’inverosimile, quando va male sono di una fragilità impressionante, spesso indolenti e totalmente privi di spirito critico. Non hanno certamente alcuna colpa, loro, semmai la colpa è di chi, credendo di far loro del bene, ha scelto di educarli alla vita diseducandoli ad essa, facendosi continuamente carico dei loro problemi più futili e finendo così per renderli incapaci di affrontare autonomamente la propria personale esperienza, trasformandoli progressivamente e inesorabilmente in young adults passivi e ignavi. La responsabilità, per capirci, è di quei “genitori peluche” che per essersi un tempo ansiosamente e istericamente preoccupati delle cose più sciocche del presente dei loro figli, hanno finito per trascurarne il futuro che conta. Li hanno sempre coccolati salvo accorgersi tardi che questa è l’unica cosa che sanno fare.

 

E così al primo conflitto adolescenziale essi evaporano per viltà, scompaiono per manifesta incapacità educativa, abbandonano il figlio che mai hanno saputo affinare e ingentilire al rispetto delle regole, alla buona educazione, alla disciplina. Dove per disciplina non si intende chissà quale legge marziale, ma la semplice e basilare educazione alla capacità di darsi degli obiettivi precisi e impegnarsi a raggiungerli anche a costo di qualche NO! e di qualche sacrificio. Così il ragazzo si ritrova solo, naufrago, e poi finisce come finisce. E allora vai col giro di giostra mediatico che parla male dei giovani d’oggi, quando invece bisognerebbe dubitare e porsi delle domande sui loro genitori e soprattutto sui loro padri (che ai colloqui con i professori non si presentano quasi mai).

 

Perché questo è il punto: l’urgenza di riscoprire l’autorevolezza, e a volte pure l’autorità, della paternità e il ruolo non soltanto genitoriale ma anche culturale e sociale che essa deve rivestire. Invece più mi guardo intorno e più vedo adolescenti smarriti, senza riferimenti, senza codici di comportamento e di conseguenza sofferenti, anche se sembrerebbe un paradosso, poiché senza regole e padri rompiscatole intorno ci si aspetterebbe che essi siano felici. Immaginate una giovane pianta che cresca senza un tutore. E immaginate un’altra pianta con un tutore morbido che assecondi ogni movimento dello sviluppo del legno. Come potrebbero svilupparsi i loro fusti? Storti uguali. Mio padre con me fu tosto e spigoloso come una roccia, ma sui suoi spigoli io mi sono potuto aggrappare sospingendomi verso l’alto. Pensate invece di dovervi aggrappare su un morbidoso “padre peluche”. Dai e dai, finireste per ritrovarvi sempre col culo per terra. Cari padri di figli millennial, se non volete che i vostri pargoli crescano smidollati, non preoccupatevi troppo della loro schiena.

 

“Dove porta la neve” (Tea edizioni) di Matteo Righetto è adesso in libreria

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