Il parco Izmaylovo di Mosca coperto di neve dopo una tempesta il 17 dicembre 2000 (foto di Oleg Nikishin/Getty Images) 

Saga di Nano, che voleva sparare agli uccelli e rotolarsi nella neve

Giuliano Ferrara

Genitori distratti che ti amano e si fanno i cazzi loro, ecco che cos’è la felicità. Un’educazione culturale

La saga di Nano, che poi sarei io da piccolo, comincia con me figlio. Poi verrà il papino. Per i figli di adesso è una galleria degli orrori, ma la racconto con soddisfazione, sono vivo, pare, sono amato e ho amato e amo, come persona ho passabilmente fallito ma non proprio tutto tutto. Mamma e papà si sono sposati in chiesa, atei o così pensavano di essere, su indicazione conforme di Togliatti e del partito. Uso nazionalpopolare, un prolungamento della Resistenza patriottica e “proletaria”. Anche se di ceppo liberale e borghese romano, i comunisti non erano liberal, erano comunisti. Nel 1947 ebbero mio fratello, Giorgio. Felice, mia madre lo disse a Togliatti, in redazione a Rinascita, qualche giorno dopo il parto, si lavorava parecchio per la causa. Lui, secondo quanto lei mi raccontava, la guardò, le disse “complimenti cara Marcella”, e dandole come sempre del voi aggiunse: mi raccomando le bozze in tipografia, sorvegliate il tutto. Bè, maternità e paternità non erano una specialità retorica del vecchio Pci, sebbene facessero figli e si amassero, anche molto, gli uni sugli altri (la battuta è del papà). E questo per Dodino.

 

Nano arriverà cinque anni dopo, nel 1952. Concepito in primavera, comme il faut, figlio del mese di aprile che è il mese più crudele secondo Eliot, poeta preferito di mio padre, nacque di gennaio nel gran freddo. Mamma non ricordava bene dove sono nato, in quale clinica romana, né a che ora, forse di mattina, e mi raccontava di aver abortito parecchio prima di accettarmi e darmi il via libera. Clandestinamente, va da sé. Povera Marcella, poveri nanini. L’aborto allora era un segno di indipendenza morale delle élite. Una conquista. Da trent’anni è un segno di indifferenza morale per tutti e tutte. Diceva la mamma che doveva proteggersi da un forte mal di schiena, pericoloso in gravidanza. Le ho sempre creduto sulla parola, perché l’amavo e la amo perdutamente a quattordici anni dalla morte. E mia moglie, una femminista mezza americana e mezza pugliese, per di più ebrea di madre, con cui litigo da trent’anni felicemente, la adorava e ne era adorata. Ma non l’ho mai veduta, nemmeno per sbaglio, lamentarsi della sua schiena.

 

Nacqui grasso e col pisellino. Una tremenda delusione. Da grandicello, non avendo mai fatto analisi, mamma mi disse che dovevo chiamarmi Francesca e che il suo solo desiderio era dare una sorellina a Giorgio. Cazzo, dev’essere per questo che mi sono sempre piaciute le donne, ma non solo loro. Sul battesimo si è sempre fatto un gran mistero. Forse ti ha battezzato la nonna, mi dissero. Io non sentivo il bisogno di approfondire. Finché Andrea Monda, un caro amico cattolico dell’epoca ratzingeriana, fece una sua inchiesta e si presentò un giorno da me con il mio certificato di battesimo. Nella chiesa romana di Sant’Emerenziana, a luglio, con la data sbagliata dell’8 gennaio, quella civile è il 7. Nonna Matilde, ché l’altra, nonna Elvira, madre di mio padre e sposa del nonno massone Mario, era una mangiapreti e non mi avrebbe battezzato nemmeno sotto tortura, era famosa per la sua bellezza infinita, una bionda pianista napoletana da sballo, e per la sua distrazione. Vabbè. Sono venuto fuori libero e sboccato, e forse anche violento almeno nei sentimenti, perché non ho avuto un’educazione borghese tradizionale, non ho proprio avuto, e per scelta, altro che un’educazione culturale ed etica. Il libro di Albinati, “La scuola cattolica”, mi affascinò perché era il racconto dell’altro da me. E ringrazio Iddio di esser stato sottratto, per poi eventualmente tornarvi da laico devoto, alle grinfie dei preti, anche i migliori.

 

A sei anni Nano era a Mosca, papà faceva il corrispondente dell’Unità, con Ronchey e Livi e Garritano e altri giornalisti di grido. Erano una coppia felice. Mangiavano pane, cipolla e spaghetti portati da Reichlin in valigia. Io andavo all’asilo, mangiavo zuppe, polpette, e poi a casa spaghetti, sono parecchio ingrassato, l’incubo di mamma, imparai il russo e la Russia in pochi mesi, a cinque anni dalla morte di Stalin. Gente magnifica e molto dura: in classe pare mi comportassi male, diceva la profia, stavo sempre a guardare dalla finestra per sparare agli uccellini. Mi menavano perché ero straniero. Mi dicevano sporco ebreo, e mamma mi spiegava la faccenda. Erano convinti che Hitler e Napoleone fossero due fascisti, e io gli spiegavo la differenza a mie spese. Però mi divertivo un mondo nella neve, come succederà alle mie bassottine a New York in un Natale di tormenta. A proposito del Natale, e dei compleanni, eravamo conformisti ma trascurati. Poca roba. Con tenerezza, ma senza sforzi erculei. Io non ne soffrivo, credo. Essere diverso mi è sempre piaciuto immensamente. Il resto, adolescenza, giovinezza, maturità, vecchiaia, è relativamente meno interessante. Almeno per questa meravigliosa pagina di Annalena che Cerasa è riuscito a strapparle perché è più bravo di me in molte cose.

 

Noi figli degli anni Cinquanta eravamo diversi da quelli di adesso, credo si sia capito. La famiglia si mescolava con una storia pazza e disperata, ma avvincente, avventurosa, esposta all’errore e al destino come poche in poche epoche. Educazione musicale, no. Educazione fisica, ridicolo. Scuola pubblica, chiavi di casa a tredici anni, gran pacchetti di Kent con i soldini rubacchiati a mamma e papà, cinema e cose varie intuibili. Fummo oggetto d’amore, ovvio. Non fummo consumati e consumavamo poco. Tutti fumavano sempre e felicemente. Oddio, mamma una volta passò dal droghiere per protestare per i conti e seppe che io lì mi recavo ogni giorno a mangiare ciriole intrise di maionese, e le mettevo nel conto di casa, il che costicchiava. Papà era un genio poetico, a suo modo un viveur e credo un grande amante, come il nonno. Anche lui era distratto. Mi regalò la Lambretta 50 a tredici anni e mezzo, quando il limite legale era quattordici. Divenni un capo in quella circostanza. Capite che cos’è la felicità? Genitori distratti, che ti amano e si fanno i cazzi loro. Baci. Alla prossima.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.