Quando è nata Alice

Antonella Lattanzi

Sono stata una figlia impossibile, ma veneravo mia sorella. Di colpo lei era madre, e io allora chi ero?

Giocavamo alle signore. Eravamo due signore che s’incontravano per strada e si mettevano a parlare. Giocavamo alle bambole. Finiva sempre che avrei voluto avere la sua bambola, essere la sua bambola. Giocavamo a mamma e figlia. Non mi sopportava più di tanto, io la veneravo. Mi leggeva le favole e poi i libri, la domenica mattina, a letto. Poi era un primo pomeriggio di aprile del 1998, traboccante di sole, eravamo in salotto, io avevo diciassette anni, lei ventidue ed era ancora mia sorella, aveva un vestito indiano rosso, largo, luccicante, le gambe già un po’ abbronzate, i piedi nudi, i capelli lunghi e neri raccolti sulla nuca e mi disse: io e Giorgio abbiamo deciso di fare un figlio. La vidi all’improvviso piccola e ribelle, libera. Rideva. Mi venne un colpo al cuore. Lo frequentava da un paio di mesi. A maggio era già incinta, a febbraio nacque la sua prima figlia. Poco dopo, prima del diploma, io andai a vivere da lei, in una casa buia in cui lei e Giorgio si barcamenavano tra l’arrivo di una figlia e l’inizio della loro relazione. Erano giovani, stanchissimi, io ero adolescente, avevo la cresta e pensavo solo a me. In una foto in cui è incinta mia sorella è nel cortile della loro prima casa, ha il pancione, una salopette, e un sorriso tondo da bambina. E’ bellissima, e mi sembra troppo piccola per quello che le sta accadendo. Non c’è una foto ma me la ricordo, non molto tempo dopo, con le doglie che non finivano mai a casa dei miei, e tutto quel dolore io non sapevo minimamente cosa fosse.

Quando nacque mia nipote, sua figlia, non mi fu permesso di assistere al parto. Era notte, mia sorella partoriva fuori Bari, e io dovevo rimanere a casa dei miei genitori con i nostri due pastori tedeschi. Rimanemmo quella notte tutti e tre in cucina, di restare sola avevo paura. Il giorno dopo andai a conoscere Alice, il viaggio in macchina era infinito e io non capivo più chi ero, mi fece impressione quanto era piccola, non avevo mai visto un neonato, non avevo mai visto mia nipote, sua figlia. Mia sorella diventò una persona sconosciuta. Io sono stata una figlia impossibile. Ho vissuto a casa di mia sorella per un paio di mesi, poi mi ha mandato via: ero tremenda. Non parlavamo più e nei pochi sprazzi di luce tra di noi io rimpiangevo di non avere più mia sorella ma un’estranea. Una donna, anzi: una signora. Non si poteva più bere l’acqua dalla bottiglia, non si poteva più far tardi la sera insieme, non si poteva fare un viaggio, non si poteva più parlare perché c’era sempre Alice che aveva bisogno di qualcosa. Mia sorella non mi capiva più e io soffrivo di una tale nostalgia di lei che tutto il mondo era nemico. L’unica cosa che facevo in casa era ballare ogni tanto gli Afterhours con mia nipote in braccio. A lei piaceva “Voglio una pelle splendida” e io la cantavo, ballavo con lei tra le braccia, si addormentava.

Poi siamo cresciute, lei, Alice, io. Avere una nipote diciottenne quando io ho trentasette anni mi fa sentire come forse facevo sentire io mia sorella certe volte: grande, giusta, responsabile e importante. Adesso mia sorella è diventata mia sorella, un’altra sorella rispetto a quando eravamo bambine. E Alice è mia nipote, certo anche sua figlia, ma soprattutto è mia. Quando penso che è la figlia di mia sorella mi viene una sorta di vertigine, è venuta da lei e parla come lei e si muove come lei, e anche se ha i capelli biondi e gli occhi verdi si vede lontano un miglio che è sua figlia. Io ogni tanto mi sento il modo di parlare o gesti di Alice addosso e penso che qualcosa l’ha preso anche da me. Mi viene una vertigine più forte, o forse la stessa, quando penso a come sarebbe un figlio mio. Un figlio lo voglio da sempre ma ho copiato qualsiasi cosa da mia sorella tranne questo. Avrei voluto un figlio che nascesse lo stesso anno, lo stesso mese di Alice ma quando avevo diciassette anni non mi sentivo più una figlia, non mi sentivo più, di colpo, una sorella, ma nemmeno mi sentivo una madre. Sarei stata troppo piccola.

C’è una foto. Intorno a una torta con tre candeline poggiata su un tavolino basso, di vetro, ci siamo mia madre, mia sorella e io accovacciate e Alice piccolissima, in piedi. Per un caso, siamo vestite tutte e quattro di toni che danno sul blu. Alice ha un vestitino a quadri, la bocca rossa, i riccioli biondi, le candeline sono accese ma lei non le guarda. Guarda lontano, da tutt’altra parte rispetto all’obiettivo, alla torta, a noi. Mia madre, mia sorella e io stiamo soffiando. Dietro di noi si intuisce la casa dei miei. Mia madre ha un maglione a collo alto, i capelli cortissimi che si vanno ingrigendo, mia sorella ha un vestito e i capelli lunghi, neri, sciolti, io una felpa, il piercing al labbro, le borchie e i dread. Eppure non stono. Siamo lì, tutte e tre, a soffiare per Alice, la nipote di mia madre, mia nipote, la figlia di mia sorella. E dato che ci siamo noi a soffiare, Alice può guardare avanti, lontano, senza paura. Vorrei tanto sapere che anche ora si sente così; libera.

Antonella Lattanzi è scrittrice e sceneggiatrice. Il suo ultimo romanzo è “Prima che tu mi tradisca” (Einaudi stile libero)

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