Una fogliata di libri

Il cielo e la terra

La recensione del libro di Lindau, 400 pp., 24 euro

Roberto Paglialonga

    Brucia nelle mani come il fuoco. Una lettura che è un invito a desiderare l’Assoluto, volendo tutto. Un’accusa alla tiepidezza. Rovescia i canoni. Peccato originale, redenzione, santità. Chi oserebbe oggi scrivere un romanzo su questi temi? Carlo Coccioli! Che, appunto, è morto nel 2003, e Il cielo e la terra lo pubblicò per Vallecchi nel 1950. Eppure, non si può leggere questa storia senza essere catturati dalla sua attualità, ovvero da quel gusto che hanno le cose eterne, capaci di ripetersi in ogni tempo. Perché qui non c’è solo la vita di un prete “in odore” di santità, invero un po’ orgoglioso, spedito a fare il parroco in un paesino di montagna, Chiarotorre, affinché comprenda che per portare validamente la croce non occorre andare ai confini del mondo. No, qui è chiamata in causa la vita di tutti noi, con i suoi interrogativi laceranti.

     Fino a che punto uno è se stesso e non anche un altro? Che diritto ha Dio di ingerirsi nell’esistenza dell’uomo, se poi persiste il dramma della sofferenza inconoscibile? Il male è solo malvagità umana o è anche dominio di Satana? Che risposta diamo di fronte alla nostra insufficienza? È per questo che nel filo della narrazione entra l’umanità intera: nobili e contadini, sacerdoti e combattenti (siamo tra il 1927 e il 1943), giovani e vecchi. Tutti inscindibilmente legati a una persona, don Ardito Piccardi, con la quale – per caso o provvidenza – sono venuti in contatto. Tre su tutti: il maestro Belli, marxista che si converte grazie a lui; il ragazzo di buona famiglia, Alberto Ortognati, omosessuale, che a causa sua (o questo è ciò che penserà il don) si suicida, incapace di sostenere la propria condizione di fronte alla Parola; il piccolo paralitico Gustavino, miracolato proprio dal prete “santo”. L’unico col coraggio di portare “ogni cosa alle conseguenze estreme”, in grado di “esprimere una verità”.

    Un fiume in piena, Coccioli. Esperto di oriente e letterature camito-semitiche, omosessuale, cattolico tormentato, convertito all’ebraismo e infine al buddismo. Un autore che si può amare od odiare, non ignorare. Come invece ha fatto per lunghi tratti l’Italia – da cui egli, livornese di nascita, si allontanò negli anni Cinquanta per riparare a Città del Messico – riesumandolo di tanto in tanto, qua e là, pur senza la giusta convinzione. Perché Coccioli è scandaloso. Con la sua scrittura febbrile; con i suoi temi sempre fuori quota: Fabrizio Lupo (1952), Uomini in fuga (1972). Onore, dunque, a Lindau che sta ripubblicando volumi scomparsi addirittura dai negozi online. Come Il cielo e la terra, appunto, romanzo religioso nel senso più ampio, per cui si sono sprecati i paragoni: Bernanos, Mauriac. La verità è che Coccioli fu – ed è – solo se stesso. Come ogni fuoriclasse che si rispetti. Ardendo nella ricerca di un senso. Come il protagonista don Ardito: pastore d’anime araldo contro Satana; posseduto non appena cede alla logica dei salotti à la page (già allora!); salvato dal desiderio di tornare a riconoscere Dio in ogni persona. Nell’unico modo possibile: amando. Senza rinunciare a nulla di quel che è nell’essere umano. Questo è portare la luce.

     

    IL CIELO E LA TERRA

    Carlo Coccioli,

    Lindau, 400 pp., 24 euro